Tra i due crinali

Aprile del ’44 arrivò a Muntvèl senza annunci. Le giornate si allungavano, ma il paese restava contratto, come se avesse imparato a non fidarsi nemmeno della luce. Cesare Montanari era ancora lì, l’unico poliziotto. Dopo l’8 settembre i tedeschi erano arrivati anche da quelle parti. Prima con cautela, poi con metodo. Una mattina lo avevano fatto salire su un camion. Nessuna spiegazione. Rocca delle Caminate. Cesare aveva capito subito che non era una cosa improvvisata.

Mussulén lo volle vedere perché lo conosceva. Non come si conosce un uomo, ma come si conosce uno strumento che ha funzionato. In vent’anni se n’era servito più volte, sempre di traverso, senza passare dagli uffici, per faccende che dovevano restare fuori dai verbali e dai percorsi ufficiali. In quel momento Cesare era un’ancora. Non per andare avanti, ma per restare fermo. Un punto sicuro nel porto da cui tutto era partito, qualcosa di semplice e affidabile a cui aggrapparsi mentre il resto cominciava a muoversi male. Non serviva altro: uno strumento che aveva già dimostrato di reggere il peso, e che ora poteva reggerne ancora uno. Montanari Cesare da Muntvèl: così lo chiamava.

Ma quando Cesare entrò nella stanza capì che qualcosa si era spezzato. E scuréva, scuréva una masa: e’ zabajéva[1], ma senza dire davvero nulla. I discorsi erano rancorosi, ripiegati su nemici che cambiavano forma a ogni frase. Gli occhi erano spiritati, in continuo movimento, come se cercassero conferme che non arrivavano più. Non c’era più autorità, solo abitudine al comando.

– Sei rimasto – disse Mussolini a un certo punto – t’ci armàst!

Non era una domanda. Cesare rispose il minimo indispensabile. Che faceva il suo lavoro. Che il paese era tranquillo. Mussulén sembrò trarne conforto, come se bastasse quell’uomo venuto dalla sua terra per ricordarsi chi era stato. Poi l’attenzione scivolò via, e l’incontro finì senza un vero senso di chiusura.

Ma il punto non fu quello che si dissero. Fu quello che videro i tedeschi. Videro che Mussolini lo conosceva, che lo chiamava, che si fidava ancora di lui. E questo bastò. Da quel momento Cesare non fu più solo il poliziotto di un paese marginale. Divenne una figura da non toccare. Non per rispetto, ma per calcolo. Quando tornò a Montevalle, nessuno gli fece più domande dirette. I controlli rimasero, ma a distanza. Una protezione indiretta, fragile, che Cesare capì di dover usare con misura. A casa non raccontò quasi nulla. Anna capì subito. Elena teneva d’occhio Maria, che giocava in silenzio. Il pensiero di tutti andava a Giovanni. Il figlio. Per mesi disperso, inghiottito dalla guerra. Poi quella lettera, arrivata otto mesi dopo tramite la Croce Rossa: prigioniero degli inglesi, a Zonderwater, in Sud Africa. Vîv. Una parola che aveva rimesso in moto la casa senza riportare quiete.


Fu allora che Cesare riattivò il contatto con Ruggero Baldini. Non come scelta ideologica, ma come necessità. Baldini compariva senza farsi notare, come uno che passa di lì per caso e poi si ferma. Non era un capo e non aveva mai preteso di esserlo. Cinquant’anni, una vita da ladruncolo di paese, piccoli furti, favori sbagliati, qualche notte passata a dormire dove capitava. Non risultava iscritto a niente, non aveva mai fatto discorsi politici, e non era un violento. Aveva un figlio di cui parlava poco e male, perso da qualche parte nel trambusto della guerra, come succedeva a molti. A Montevalle, però, si conoscevano tutti, e Cesare sapeva una cosa semplice: Baldini sapeva ascoltare e sapeva trovare la gente. Negli ultimi mesi sbandati e disertori avevano ricominciato a muoversi tra i crinali. Gente che non voleva tornare sotto le armi, che non aveva una linea, ma solo fame e paura. Cesare non poteva avvicinarli direttamente senza attirare attenzioni. Baldén sè. Parché par lò l’era ó coma lò[2]. Uno che non faceva domande e non prometteva niente. Si incontravano in posti che non lasciavano memoria: un argine basso, una stalla abbandonata, un campo dietro un filare. Cesare arrivava sempre prima, con la bicicletta appoggiata a qualcosa che non facesse rumore.

Cesare usava Baldini come si usa un nodo: non per tirare, ma per tenere insieme. Attraverso di lui faceva arrivare avvisi, consigli, freni. Baldini non commentava. Ascoltava, annuiva, e poi spariva. Era il tipo di uomo che non cambiava il corso della guerra, ma poteva evitare che un paese finisse schiacciato per un errore di troppo. Sapeva che non sarebbe durata. Ma finché teneva, il paese respirava. E lui restava lì, a fare il suo mestiere nel punto più scomodo possibile.


Le perlustrazioni cominciarono senza preavviso, come tutte le cose che non chiedono consenso. Un mattino Cesare trovò davanti alla stazione un camion grigio, fermo con il motore al minimo, e una squadra dell’OrPo che aspettava. Non c’erano spiegazioni da dare, solo da eseguire. La presenza stessa di quei uomini era già un ordine. L’OrPo, la Ordnungspolizei, non era un reparto da prima linea. Non faceva guerra nel senso classico. L’era pulizî armêda [3], ordine imposto nelle retrovie, controllo del territorio occupato. Doveva “normalizzare”. Rastrellare, perlustrare, intimidire. Sulla carta mantenere la sicurezza; nella pratica, altrove, aveva lasciato dietro di sé paesi svuotati, rappresaglie sommarie, civili presi come ostaggi per colpe mai chiarite. Non erano soldati stanchi dal fronte: erano uomini addestrati a rendere la paura una procedura. Per questo Cesare capì subito che quella non era una visita occasionale. L’OrPo arrivava quando qualcuno, più in alto, aveva deciso che la zona andava letta meglio, ripulita, resa trasparente. Il camion acceso, l’attesa silenziosa, il modo in cui gli uomini tenevano le armi senza ostentarle: tutto diceva che non si trattava di un passaggio, ma dell’inizio di una fase nuova.

Con loro c’era un sottufficiale che non aveva mai visto. Non parlava, osservava. Guardava il paese come si guarda un luogo che presto smetterà di essere neutro. In quel momento capì che il tempo delle mediazioni sottili stava per accorciarsi, e che da lì in avanti ogni passo sarebbe stato contato. U s’ciaméva[4] Keller. Hauptwachtmeister, coma dì maresciàl chêp[5]. Coetaneo di Cesare, ma con addosso un’aria diversa, più trattenuta. Appena scese dal camion, Keller guardò le controspalline di Cesare. Tre strisce dorate, screziate in nero, bordate color cremisi. Le vide subito, come vide i nastrini sul petto, quelli delle campagne della Grande Guerra. Fece un mezzo passo indietro, quasi impercettibile. Un maresciallo maggiore. In teoria, almeno sulla carta, Cesare gli era superiore. Non era solo quello. A Keller era già arrivata la voce. Montanari Cesare da Muntvèl. Quello che conosceva Mussolini. Quello che, si diceva, era stato suo amico da ragazzo, o comunque uno che il Duce chiamava per nome. In quel mondo fatto di gerarchie fragili e timori ben fondati, bastava questo a mettere soggezione. Lui invece era un richiamato. Uno tirato fuori dalla polizia di campagna quando la guerra aveva cominciato a chiedere più uomini di quanti se ne potessero mandare. Anche lui aveva fatto la Grande Guerra, abbastanza da riconoscere certi silenzi. Anche lui veniva da paesi piccoli, strade sterrate, liti tra vicini, furti da poco. Non era un uomo da carneficina, ma comandava uomini che potevano farla.

– Ci accompagna, ja – disse, più come constatazione che come ordine.

Cesare annuì. L’OrPo, in quei mesi, aveva un nome che girava male. Keller lo sapeva. Lo sapeva e, a modo suo, ne era caricato. Aveva un figlio in Russia. Lo disse una volta sola, senza enfasi, durante una sosta.

– Non so dov’è – aggiunse. Nein.

Cesare non parlò di Giovanni, prigioniero in Sudafrica. Bastava così. Due uomini della stessa età, due figli persi in direzioni diverse. Salirono sui monti a piedi. Il plotone si muoveva compatto, con un passo che non lasciava spazio all’improvvisazione. Keller camminava a fianco di Cesare, mai davanti. Ogni tanto lo guardava di sbieco, come per verificare qualcosa che non stava nei regolamenti. Faceva domande precise: i tempi, i passaggi obbligati, i punti dove un uomo armato poteva sparire senza lasciare traccia. Non chiedeva nomi. Non chiedeva case.

Cesare capì che Keller, oltre al terreno, stava misurando lui. Fino a che punto fosse affidabile. Fino a che punto fosse davvero quello che si diceva. Cesare rispondeva senza esporsi. E dgèva e’ nesesèri, gnìt d’piò[6]. Quando poteva, sceglieva il sentiero più lungo, quello che sembrava logico solo a chi lo conosceva bene. Trovarono poco, all’inizio. Tracce vecchie, fuochi spenti da giorni, una coperta buttata dietro un muretto. Keller non mostrava irritazione. Anzi, a volte sembrava sollevato. Dava ordini brevi, conteneva i suoi uomini. Cesare lo notò. Non era scontato.

Col passare delle settimane, tra i due si stabilì un rapporto fatto di rispetto e di cautela. Keller restava in soggezione, ma non per paura. Piuttosto per quella sensazione scomoda di trovarsi davanti uno che aveva visto molte cose e che, nonostante tutto, era ancora in piedi. Cesare, da parte sua, capiva che Keller non cercava lo scontro a tutti i costi. Cercava di portare a casa il lavoro senza far saltare il territorio. Una sera, scendendo verso valle, Keller si fermò a guardare giù, verso il paese.

– Qui – disse – se sbagliamo, non paga chi combatte. Non lui.

Cesare non rispose. Non serviva.

Le perlustrazioni continuarono. A volte per farsi vedere, a volte per ordine diretto. Cesare guadagnava tempo, deviava, rallentava senza mentire. Keller, se ne accorgeva, lasciava fare. Era un equilibrio instabile, tenuto insieme da gradi, voci, e dalla consapevolezza che, in quei monti, bastava poco per perdere il controllo. Finché teneva, quell’equilibrio proteggeva il paese. E tutti e due sapevano che non sarebbe durato.

Cesare aveva cominciato a preparare i sopralluoghi come si prepara una tregua che si sa già destinata a finire. Non per illudersi che potesse durare, ma per strappare giorni, a volte solo ore, a qualcosa che stava comunque arrivando. Ogni uscita con Keller era una scelta calibrata, un compromesso costruito in anticipo. Stabiliva itinerari innocui. Sentieri larghi, crinali esposti, zone dove non si trovava nulla se non vento e terreno duro. Posti che davano l’impressione del controllo senza toccare punti sensibili. A Keller li presentava come percorsi utili a prendere confidenza con l’area. Non mentiva apertamente. E lasséva fura e’ rèst[7]. Prima di ogni perlustrazione cercava Baldini. Sempre luoghi che non trattenevano memoria: un argine, una stalla vuota, un campo dietro un filare. Cesare arrivava con la bicicletta, Baldini spuntava dopo. Le frasi erano sempre le stesse, e sempre più pesanti.

– Per un po’ niente movimenti. Niente fucili in vista. Niente fuochi.

Baldini ascoltava, annuiva, poi faceva il suo giro. Cesare sapeva che non dava ordini, ma sapeva anche che sapeva a chi parlare. In quel momento bastava. Le notizie che arrivavano da fuori non lasciavano spazio a illusioni. Rastrellamenti finiti in massacri. Paesi messi in riga col fuoco per un’imboscata vera o presunta. Civili presi a caso per dare un segnale. L’OrPo, in certe zone, non aveva lasciato testimoni. Cesare sapeva che Montevalle non era speciale. Era solo, per ora, fuori dal mirino. Per questo teneva tutto rallentato. Faceva arrivare Keller quando era certo che non ci fosse nessuno da trovare. Spiegava che quei monti non si attraversavano in fretta. Che una valle apparentemente vuota poteva diventare una trappola. Keller ascoltava. Non sempre per convinzione, ma abbastanza per evitare l’urto.

Poi Baldini arrivò con una notizia che Cesare temeva da giorni.

– I scòr d’culpì – disse – I dìs ch’stê fèrmi l’è péz[8].

Cesare si fermò in mezzo al campo, la bicicletta tra le mani.

– Qui no – disse – adesso no.

– Non li tieni fermi all’infinito – rispose Baldini.

– Non chiedo l’infinito. Chiedo tempo. Qui se sparano, non finisce tra i monti. Scende giù.

Fu una discussione dura. Baldini gli disse che la gente lassù cominciava a non fidarsi. Cesare gli rispose che la fiducia non serviva a niente quando arrivavano i camion pieni di soldati. Gli parlò dei paesi di cui aveva sentito, delle famiglie portate via per “errore”. Gli disse che Montevalle non aveva nulla da dimostrare. Si lasciarono senza accordo vero. Cesare tornò verso casa con la sensazione che la tregua stesse già scivolando. Pensava ai sentieri, ai tempi, a Keller che aveva imparato più in fretta del previsto.

Il sopralluogo avvenne due giorni dopo. Non trovarono nulla. Keller fece girare gli uomini, li richiamò, chiuse la perlustrazione prima del previsto. In discesa guardò Cesare come si guarda uno che ti ha evitato un problema senza dirtelo. Quella sera Baldini tornò.

– Per ora stanno fuori – disse – ma non durerà.

Cesare annuì. Lo sapevano entrambi. Quella non era pace. Era una sospensione fragile, tenuta insieme da paura, calcolo e stanchezza. Bastava poco per romperla. Aveva capito che il suo lavoro non era salvare il paese una volta per tutte. Era ritardare il momento in cui qualcuno, altrove, avrebbe deciso di fare di Montevalle un esempio. Ogni giorno guadagnato non cambiava la guerra. Ma teneva aperta una possibilità. E in quei mesi, una possibilità era tutto. Anche Keller aveva capito il gioco senza che nessuno glielo spiegasse. Non subito, non il primo giorno. Lo aveva capito camminando, passo dopo passo, su sentieri che portavano sempre da qualche parte ma mai dove ci si aspettava davvero di arrivare. Lo aveva capito nei vuoti. Nei fuochi spenti da troppo tempo. Nei posti giusti visitati sempre nel momento sbagliato. Non aveva detto niente. Non perché non avesse potuto, ma perché aveva riconosciuto quel modo di fare. Era lo stesso che aveva usato lui, anni prima, quando la guerra era ancora un ricordo lontano e il mestiere di poliziotto significava soprattutto evitare guai peggiori. Cesare non stava ingannando nessuno per vigliaccheria o calcolo. Stava comprando tempo.

Keller era grato per quella pausa. Non lo avrebbe ammesso ad alta voce, forse nemmeno a se stesso, ma lo era. Da tempo aveva la sensazione di essere stato trasformato in qualcos’altro. Non un soldato, non un poliziotto: un animale. Uno che fiuta, che avanza, che stringe il cerchio perché è quello che gli viene chiesto di fare. Aveva visto cosa succedeva quando il cerchio si chiudeva davvero. Villaggi che smettevano di esistere in poche ore. Uomini trascinati fuori dalle case senza un motivo preciso. Donne che non urlavano nemmeno più. All’inizio aveva provato a dirsi che era necessario. Che era ordine. Poi aveva smesso di dirsi qualsiasi cosa. Si era limitato a eseguire, perché eseguire era l’unico modo per non pensare. Ma il pensiero tornava sempre, la notte, quando restava solo con la mappa e con il volto del figlio, da qualche parte a est, in una terra che non riusciva nemmeno a immaginare.

Con Cesare era diverso. Non c’era bisogno di spiegazioni. Si capivano nel modo in cui si capiscono due uomini che hanno visto abbastanza da sapere quando fermarsi. Keller vedeva le deviazioni, i rallentamenti, le scelte apparentemente inutili. Le vedeva tutte. E le accettava. E accettare significava concedere una tregua locale. Piccola, fragile, revocabile in qualsiasi momento. Ma era pur sempre una tregua. Un pezzo di territorio che, per qualche settimana, non sarebbe ancora diventato teatro di ferocia. Keller sapeva che non avrebbe potuto difenderla a lungo. Sapeva che ordini più duri sarebbero arrivati. Ma finché poteva, lasciava fare. Non era pietà. Era stanchezza. Era il desiderio, quasi fisico, di smettere per un attimo di essere quello che la guerra gli aveva imposto di diventare. Camminare, tornare indietro, dire “qui non c’è niente” e sapere che, almeno per oggi, era vero. Quando guardava Cesare, Keller non vedeva un complice. Vedeva un uomo che faceva lo stesso lavoro dal lato opposto del filo. E in quel riconoscimento silenzioso c’era l’unica forma di tregua che gli fosse rimasta.

L’ultimo sopralluogo arrivò senza essere annunciato come tale. Nessun ordine diverso, nessun tono solenne. Solo una salita come le altre, nel tardo pomeriggio, quando la luce comincia a inclinarsi e i contorni si ammorbidiscono. Camminavano davanti, Cesare e Keller, con il plotone che risaliva più indietro, in fila, spezzando il sentiero come una cucitura scura. Arrivati sul crinale si fermarono. Sotto di loro la vallata si apriva lenta, ordinata, quasi quieta. I campi disegnati con pazienza, le case basse che cominciavano a raccogliere il fumo della sera, il fiume che rifletteva un cielo già più freddo. Vista da lassù, quella terra sembrava fuori dalla guerra. Un luogo che non chiedeva niente. Rimasero in silenzio a lungo. Keller seguì con lo sguardo i suoi uomini che salivano verso di loro, uno dopo l’altro, stanchi ma composti. Poi parlò.

– Volevo dirtelo – disse, senza guardarlo – prima che… bevor, come si dice… prima che scendiamo.

Cesare restò fermo.

– All’inizio ero in soggezione – continuò Keller – tutte quelle storie… Mussolini, l’infanzia, le mostrine. Pensavo di avere davanti uno che stava lì per conto di altri. So.

Fece una pausa.

– Invece no. Tu sei solo un brav’uomo. Ja.

Cesare non rispose. Guardava la valle, come se le parole dovessero scendere fino in fondo prima di poter essere raccolte.

– Ho capito il tuo gioco quasi subito – disse Keller – i sentieri giusti al momento sbagliato, i tempi allungati, i vuoti. Non mi hai mai mentito davvero. Mi hai solo fatto vedere quello che serviva. Genau.

Si voltò verso di lui.

– Ti ringrazio. Per me. E per questo posto. Ja.

Il sole stava toccando la linea dei colli più lontani. La luce arancione rendeva tutto meno duro, quasi provvisorio.

– Per qualche settimana – continuò Keller – non ho dovuto stringere. Non ho dovuto spiegare ai miei uomini perché dovevano fare cose che non capivano. È stata… eine Pause. Una parentesi.

Disse quella parola con attenzione, come se sapesse che era l’unica possibile. Poi il tono cambiò, appena.

– Noi ce ne andiamo – disse – tra pochi giorni. Io e il plotone. Trasferimento. Befehl.

Cesare sentì il peso arrivare prima ancora del senso.

– Al nostro posto verrà una squadra della RSI – aggiunse Keller – ragazzi, in gran parte. Ma con ordini diversi. E meno pazienza. Nicht gleich.

Non servivano spiegazioni. Cesare capì tutto in quel momento. Capì che l’equilibrio che aveva costruito non era stato distrutto: era semplicemente arrivato alla sua scadenza naturale. Con i tedeschi, con Keller, c’era stata una tregua possibile. Con altri no.

– Volevo avvertirti – disse Keller – perché sappia che il tempo che avevi… è finito. Ende.

Il plotone arrivò sul crinale. Qualcuno si fermò a guardare la valle, qualcun altro si sistemò il fucile sulla spalla. Era l’ora di rientrare. Keller tese la mano. Un gesto semplice, senza cerimonia. Cesare la strinse.

– Ricordati – disse Keller – non è stato inutile.

Scese per primo. Cesare restò ancora qualche secondo. Guardava la valle mentre il sole spariva del tutto. La pace che vedeva non era vera, lo sapeva. Era solo una superficie liscia sopra qualcosa che stava già muovendosi. Quando si voltò per rientrare, capì che il suo lavoro cambiava forma. Non c’era più spazio per deviazioni leggere, per tempi guadagnati con il passo. L’equilibrio costruito stava per rompersi, e non sarebbe stato lui a decidere come. Scese anche lui, lentamente. Con la certezza che, da quel momento in poi, ogni scelta avrebbe avuto un costo più alto.


La perlustrazione successiva arrivò come un’invasione. I camion entrarono in paese a velocità inutile, frenando tardi, con i motori lasciati accesi come una provocazione. I soldati scesero urlando, spingendosi, ridendo a voce alta. Non c’era alcuna intenzione di passare inosservati. Volevano essere visti, temuti, ricordati. Cesare capì subito che Keller non c’era più e che con lui se n’era andato anche l’ultimo residuo di misura. Guido Plebani si presentò occupando spazio. Era giovane, troppo giovane per quel grado, e ne faceva un vanto. Parlava forte, si muoveva con gesti larghi, come uno che ha bisogno di dimostrare ogni minuto di essere arrivato in alto. Si capiva subito che non veniva da una carriera pulita. Anzi, ne era orgoglioso.

– Io sono partito da sotto – disse quasi subito, senza che nessuno glielo avesse chiesto – galera, strada, fame. E guardatemi adesso.

Rideva mentre lo diceva. Tenente per meriti di guerra. Lo ripeteva come una sfida. Ogni frase era un modo per ricordare agli altri che lui c’era arrivato facendo quello che serviva, senza farsi scrupoli. I repubblichini intorno a lui erano anche peggio. Non ragazzi esaltati, ma uomini che avevano trovato nella divisa la legittimazione a essere quello che erano sempre stati. Delinquenti armati. Sparavano alle imposte chiuse delle case, alle galline che scappavano nel cortile, ridevano quando qualcuno si affacciava per sbaglio. Cesare sentì il paese irrigidirsi come un animale che sente arrivare il colpo. Plebani assunse il comando senza guardare Cesare.

– Qui adesso si cambia – disse – basta passeggiate.

Quando finalmente si rivolse a lui, lo fece con un rispetto forzato, mal digerito.

– Voi siete Montanari – disse – quello delle storie.

Il tono tradiva una doppia cosa: disprezzo e cautela. Disprezzo per quell’uomo di un’altra generazione, che stava ancora lì senza aver fatto carriera. Cautela per quello che si diceva di lui. Mussolini. L’infanzia. Le conoscenze. Plebani non ci credeva fino in fondo, ma non osava ignorarlo.

La salita fu una dimostrazione di forza. I soldati sparavano colpi a vuoto solo per sentire l’eco. Buttavano giù muretti, entravano nei cortili senza motivo, si prendevano quello che trovavano. Non cercavano i “banditi”. Cercavano paura. A un certo punto Plebani rallentò di proposito e fece cenno a Cesare di seguirlo. Sempre dandosi del voi.

– Parliamo un momento – disse.

Si appartarono dietro un costone. Plebani si accese una sigaretta, con l’aria di chi sta per spiegare come funziona il mondo.

– Io so come vanno queste cose – disse – e voi pure, non fate finta di no.

Cominciò a vantarsi. Raccontò di azioni fatte altrove, di gente “convinta” a parlare, di bottini presi come premio. Ogni frase era un modo per ribadire che lui non aveva paura di sporcarsi le mani.

– Voi conoscete la gente – continuò – sapete chi ha roba, chi nasconde, chi piange per davvero e chi no. Io porto gli uomini. Ci si aiuta.

Lo disse come se stesse offrendo un’occasione, non un ricatto. Ma il ricatto era tutto lì.

– Segnalazioni – aggiunse – qualche pressione fatta bene. E poi si divide. Tanto qui nessuno verrà a chiedere conto.

Cesare u l’guardéva sènza muvéss[9]. Più Plebani parlava, più era chiaro che non c’era spazio per mezze misure. Quell’uomo disprezzava l’ordine, ma ne usava il nome per fare altro. E sotto la sbruffonaggine, Cesare sentiva il timore. La consapevolezza che stava parlando con qualcuno che non poteva permettersi di sottovalutare.

– Pensateci – concluse Plebani, schiacciando la sigaretta – perché stare fuori è pericoloso.

Tornarono sul sentiero. I repubblichini stavano sparando alle finestre chiuse di una casa isolata, ridendo. Una gallina rimase a terra, immobile. Nessuno se ne curò. Cesare guardò quella scena e capì che l’equilibrio non era solo finito: era stato sostituito da una violenza gratuita, ostentata. Con Keller c’era stata una tregua possibile. Con Plebani no. Da quel momento, ogni silenzio sarebbe stato letto come adesione. E ogni rifiuto come un affronto personale. Non rifiutò apertamente. Fece quello che aveva imparato a fare in una vita di compromessi: prese tempo, lasciò che l’altro parlasse, finse di pesare la proposta come se fosse una questione pratica.

– Vedete? – disse Plebani. – È così che si fa. Un po’ di rumore, due colpi buttati lì, e il paese impara subito.

Cesare guardò la gallina. Pensò che con Keller non sarebbe successo. Con Keller i colpi servivano a segnare una presenza, non a divertirsi.

– In pianura è ancora meglio – continuò Plebani, senza fermarsi. – Case attaccate, fienili pieni. Dai fuoco a una, e gli altri capiscono al volo. La gente corre sempre dove non dovrebbe. Sempre.

Il sentiero saliva. Cesare sentì il fiato farsi corto, non per la salita. Pensò che quello stava parlando come uno che spiega un lavoro imparato bene.

– Le rappresaglie non vanno fatte per rabbia – disse Plebani. – Quelle sono da dilettanti. Vanno fatte pulite. Una famiglia presa a caso, una sera giusta, e non hai più problemi. Non serve neanche tornare.

Cesare guardò i sassi smossi sotto gli scarponi. Pensò che a caso era diventato un metodo.

– I comunisti poi… – Plebani fece note con la mano, come a scacciare una mosca. – Quelli strillano sempre. Appena stringi un po’, urlano come bestie. Anche quando non c’è quasi niente. Ma serve. Gli altri sentono. E capiscono.

Il passo di Cesare restò regolare. Pensò che nessuno urla allo stesso modo due volte. Pensò che quello ascoltava le urla come si ascolta un attrezzo che funziona.

– Gli ebrei invece no – disse Plebani, abbassando la voce. – Quelli sono furbi. Tengono tutto addosso. Anelli cuciti, denti, roba nascosta ovunque. Animali farciti d’oro. Devi solo sapere dove guardare.

Cesare sentì lo stomaco chiudersi. Pensò che stava parlando di corpi come di dispense.

– E poi c’è il bello – continuò Plebani, ora a suo agio. – Il saccheggio. Quello va fatto in fretta. Le case giuste, capisci? Quelle con i pavimenti buoni, le madie piene. Le donne nascondono sempre male l’argenteria. I cassetti dicono tutto.

Cesare pensò ai cassetti di casa sua. A quelli che non si aprivano mai.

– Io sono per le cose chiare – concluse Plebani. – Tu dai i nomi. Io faccio il resto. Si divide. Sette parti a me, tre a te. Così funziona. E qui può funzionare benissimo.

Cesare non disse niente. Lasciò che il sentiero si stringesse, che il terreno cambiasse sotto i piedi. Sentì il vento salire dal fondo, freddo. Misurò la distanza senza guardare giù. Capì che, se quell’uomo fosse tornato indietro, niente di quello che aveva tenuto insieme fino a quel momento sarebbe rimasto in piedi. Tornarono sul sentiero. I repubblichini stavano sparando alle finestre chiuse di una casa isolata, ridendo. Un povero cane rimase a terra, immobile. Nessuno se ne curò.

– Vedete? – disse Plebani. – È così che si fa. Un po’ di rumore, due colpi buttati lì, e il paese impara subito.

Cesare guardò il cane.

– In pianura è ancora meglio – continuò Plebani. – Case attaccate, fienili pieni. Date fuoco a una, e gli altri capiscono al volo. La gente corre sempre dove non dovrebbe. Sempre.

Il sentiero saliva. Cesare sentì il fiato farsi corto, non per la salita. Pensò che quello stava parlando come uno che spiega un lavoro imparato bene.

– Le rappresaglie non vanno fatte per rabbia – disse Plebani. – Quelle sono da dilettanti. Vanno fatte pulite. Prendete una famiglia a caso, una sera giusta, e non avete più problemi. Non serve neanche tornare.

Guardò i sassi smossi sotto gli scarponi. A caso era diventato un metodo.

– I comunisti poi… – Plebani fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca. – Quelli strillano sempre. Appena stringete un po’, urlano come bestie. Anche quando non c’è quasi niente. Ma serve. Gli altri sentono. E capiscono.

Il passo di Cesare restò regolare. Inciò e zìga a dò vólti in tla stèssa manîra.[10].

– Gli ebrei invece no – disse Plebani, abbassando la voce. – Quelli tengono tutto addosso. Anelli cuciti, denti, roba nascosta ovunque. Animali farciti d’oro. Dovete solo sapere dove guardare.

Sentì lo stomaco chiudersi. Pensò che stava parlando di corpi come di dispense.

– E poi c’è il bello – continuò Plebani, ormai a suo agio. – Il saccheggio. Quello va fatto in fretta. Le case giuste, capite? Quelle con i pavimenti buoni, le madie piene. Le donne nascondono sempre male l’argenteria. I cassetti dicono tutto.

Cesare pensò ai cassetti di casa sua. A quelli che non si aprivano mai e a sua moglie Anna.

– Io sono per le cose chiare – concluse Plebani. – Voi date i nomi. Io faccio il resto. Si divide. Sette parti a me, tre a voi. Così funziona. E qui può funzionare benissimo.

Cesare non disse niente. Lasciò che il sentiero si stringesse, che il terreno cambiasse sotto i piedi. Sentì il vento salire dal fondo, freddo. Misurò la distanza senza guardare giù. Capì che, se quell’uomo fosse tornato indietro, niente di quello che aveva tenuto insieme fino a quel momento sarebbe rimasto in piedi. E continuò a camminare, in silenzio, fino al punto in cui il sentiero finiva.

Quella salita li riportò sullo stesso crinale dove, poche settimane prima, Keller aveva parlato di tregua e di trasferimento. Stesso vento, stesso taglio della luce, ma un’aria completamente diversa. Plebani, appena arrivato in cima, allargò le braccia come un attore che pretende applausi.

– Guardate che bel posto – disse – da qui li vedete come topi.

Sotto, la vallata stava già diventando scura. Le case sparse, i fienili, le aie. Ogni cosa pareva quieta solo perché era lontana. Plebani si voltò verso i suoi e cominciò a dare ordini con una gioia impaziente.

– Disperdetevi. A raggiera. Come cani da caccia. Voglio vedere come scappano.

I repubblichini partirono ridendo. Non si mossero come uomini in perlustrazione, ma come predatori in libera uscita. Si sparsero per la costa, urlando, fischiando, sparando colpi senza motivo solo per sentire l’eco rimbalzare. Qualcuno scese verso un fienile e sparò alle assi della porta. Un altro prese a tirare contro un’ombra che si muoveva tra l’erba, forse una gallina, forse un cane. Il rumore scese giù come una frana. Poi arrivò il fumo. Prima uno sbuffo sottile, quasi niente. Poi una colonna più densa, più scura, che si alzò lenta da un fienile. Plebani rise, compiaciuto, come se fosse un segnale di festa.

– Così imparano – disse. – Così capiscono chi comanda.

Cesare non disse nulla. Restava un passo indietro, come se anche quell’oggetto potesse tradirlo con un riflesso. Guardava i movimenti degli uomini giù per il pendio: macchie scure che andavano e venivano, voci che salivano a ondate. Non c’era alcuna caccia ai “banditi”. C’era solo il piacere di rompere qualcosa. Plebani, intanto, si godeva la scena dall’alto. Camminava sul crinale con l’aria di chi possiede il panorama. Ogni tanto si voltava verso Cesare, per controllare che guardasse anche lui.

– Voi, Montanari, avete vissuto troppo a lungo qui sotto – disse, con quel tono a metà tra lo scherno e la cautela. – Vi siete abituato a pensare che la gente conti qualcosa. Non conta niente.

Cesare lasciò passare. Aveva già capito che, con un uomo così, l’unica difesa era farlo sentire al sicuro. Plebani non vedeva il pericolo, perché credeva di essere il pericolo. Scese di qualche metro lungo un tratto di costa più aspra, come per cercare un punto migliore. Il terreno lì era duro, spezzato, pieno di sassi e radici. Sotto, il burrone si apriva come una bocca scura tra cespugli e pietre. Plebani si fermò sul bordo, senza prudenza, con il corpo inclinato in avanti per guardare meglio.

– Sentite? – disse, ascoltando gli spari lontani. – Questo è ordine.

Cesare era dietro di lui. Vicino abbastanza da sentire l’odore della sigaretta e del sudore. Il vento portava su le urla degli uomini e il crepitare di qualcosa che bruciava. La vallata, da lassù, era di nuovo quella di sempre: campi, case, un fiume invisibile. Ma ora c’era il fumo, e quel fumo cambiava tutto.

Plebani fece un passo ancora, come per sporgersi di più. Cesare non pensò a lungo. Non fece discorsi. Non cercò un motivo che lo assolvesse. Lo spintone fu secco, sèza ràbia, sèza esitazió[11], come un gesto tecnico. Una manata forte, tra petto e spalla. Plebani ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo, con un’espressione incredula, come se non riuscisse a capire che il pericolo potesse arrivare da così vicino. La bocca si aprì, ma non uscì nessuna frase intera. Un mezzo suono, un urto d’aria. Scivolò. Il terreno gli mancò sotto i piedi, le braccia cercarono qualcosa che non c’era, e il corpo sparì nel burrone con un rumore che non fu subito uno schianto, ma una serie di colpi spezzati: pietra, terra, rami. Cesare restò fermo sul crinale. Sotto, gli spari continuavano. Le voci dei repubblichini salivano e scendevano come prima, indifferenti.


E fom, int la val, u s’alzeva incóra[12]. Non tornò verso il plotone. Non guardò indietro. Fece quello che il terreno gli consentiva di fare meglio di chiunque altro: sparire. Scese dall’altra parte del crinale, a piedi, infilando subito il bosco. Non il sentiero battuto, ma una traccia laterale, sporca, che si perdeva tra i castagni e i rovi. Il rumore degli spari restò alle sue spalle, confuso, distante. Il bosco lo assorbì in pochi passi. Foglie secche, rami bassi, terra umida. Camminava senza fretta apparente, ma senza esitazioni. Ogni passo era già stato fatto altre volte, in altri anni, per altri motivi. Dopo una mezz’ora il rumore cambiò. Prima si diradò, poi cessò quasi del tutto. Rimase solo il vento tra gli alberi. Cesare si fermò un momento, appoggiando la mano a un tronco. Capì che qualcosa stava succedendo lassù. Non aveva bisogno di vederlo per saperlo: il silenzio, in quei casi, non era pace. Era confusione.

I repubblichini avevano cominciato a capire. Senza Plebani, senza di lui, senza ordini chiari, senza una voce che urlasse più forte delle altre, la violenza si era trovata improvvisamente senza direzione. Qualcuno aveva sentito un rumore nel bosco, qualcun altro aveva sparato pensando di coprire un fianco inesistente. Le urla si erano accavallate, i colpi erano diventati risposta a colpi. La paura aveva fatto il resto. Cesare riprese a muoversi, risalendo la valle dal lato opposto, tenendosi alto. Quando uscì dal bosco e arrivò a un punto scoperto, si fermò di nuovo. Da lì vedeva sotto di sé il pendio e, più in basso, il movimento scomposto degli uomini. I soldati correvano verso i camion. Non in ordine, non coprendosi a vicenda. Scappavano. Alcuni si voltavano di continuo, sparando a casaccio verso il bosco, convinti di essere sotto attacco partigiano. Altri gridavano nomi che nessuno raccoglieva. Un camion partì con uno strappo, prima ancora che tutti fossero saliti. Un altro lo seguì subito dopo.


Osservava la scena dall’alto, immobile. Non provava sollievo. Nemmeno soddisfazione. Solo la consapevolezza che quel pezzo di mondo, per qualche ora almeno, si era richiuso su se stesso. Quando il rumore dei motori si perse nella valle, riprese il cammino. Doveva arrivare da Baldini prima che qualcun altro collegasse i fatti nel modo sbagliato. Scese ancora, poi risalì lungo un sentiero secondario, passando dietro un fienile annerito dal fumo. L’odore di bruciato era ancora nell’aria. Baldini era dove doveva essere. Non si stupì di vederlo arrivare a piedi, senza fiato corto.

– A l’ò mazê. [13] – disse Cesare, senza preamboli.

Baldini lo guardò in silenzio. Non fece domande inutili.

– Quéll ch’cumandéva – continuò – adès u n’cumànda pió[14].

Baldini abbassò lo sguardo, poi lo rialzò.

– E adès?[15]

Cesare scosse appena la testa.

– Adès i pinsarà a n’atach. I s’tirén luntèn par un pô. Ma a n’sarà piò coma prema[16].

Non c’era bisogno di molte parole, ma quella volta parlarono di più. Non per spiegarsi, ma per fare il punto. Cesare raccontò l’essenziale. Baldini non chiese dettagli. Capì subito che non si trattava di un incidente, né di una fuga improvvisata.

– Ora sei fuori – disse Baldini – non a metà. Fuori davvero. A fä d’le fritêl u s’ha da rompar agl’ov[17].

Cesare annuì. Era la prima volta che sentiva quella parola senza sentirsela scivolare addosso. La prima cosa da fare era la famiglia. Su quello non c’era discussione. Baldini chiamò un tabachét[18], quindici, forse sedici anni, magro come una canna e con gli occhi svegli. Uno di quelli che sapevano stare zitti.

– Vai dalla moglie di Montanari – disse Baldini – dille solo questo: prendete quello che serve e salite con me. Subito. Alla casa della valle stretta. Sai dov’è.

Il ragazzo annuì e sparì senza fare rumore. Cesare restò in silenzio. Pensava ad Anna, alla sua calma ostinata. A Elena, che avrebbe capito al volo senza fare domande. A Maria, che avrebbe seguito senza piangere, perché qualcuno le avrebbe detto che era un gioco. Sapeva che non le avrebbe viste per un po’. E doveva bastargli sapere che erano in buone mani.

– Non puoi tornare a casa – disse Baldini – nemmeno per guardare.

– Lo so.

Baldini tirò fuori un fagotto. Dentro c’erano vestiti comuni, da contadino: pantaloni scuri, una camicia ruvida, una giacca che aveva già visto parecchie stagioni. Cesare si tolse la divisa senza fretta. La piegò con attenzione, come si fa con qualcosa che non si sa se si rivedrà. Baldini la prese e la nascose sotto alcune assi, in un punto che solo lui avrebbe ricordato.

– Da adès – disse – t’ci un êtr[19].

Cesare infilò i vestiti nuovi. Si sentiva più leggero e più esposto allo stesso tempo. La pelle, senza il peso della divisa, reagiva all’aria in modo diverso. Aspettarono ancora. Il tempo di sentire il paese spegnersi, di lasciare che la notte prendesse il posto giusto. Quando fu buio si incamminarono. Non per i sentieri comodi, ma per quelli che si interrompono e riprendono più avanti. Baldini camminava davanti, sicuro. Cesare seguiva senza fare domande. Ogni tanto si fermavano. Baldini ascoltava. Un gufo, un ramo spezzato, niente di più. La valle secondaria si aprì davanti a loro come una piega nascosta del terreno. Lì, da qualche parte, c’erano gli uomini che fino a poco prima Cesare aveva solo cercato di proteggere da lontano. Quando arrivarono al punto stabilito, una voce li fermò.

– Chi va là.

Baldini fece un passo avanti.

– A sò mé – disse – Baldén.[20].

Ci fu un silenzio breve, poi un altro uomo uscì dall’ombra. Guardò Baldini, lo riconobbe senza fretta.

– E questo?

Baldini si voltò verso Cesare.

– È uno che ha già rotto – disse – e non può tornare indietro.

L’uomo di guardia lo studiò un attimo. Poi fece un cenno con la testa e si scostò.

– Entrate.

Cesare fece l’ultimo passo fuori dal sentiero conosciuto. Dietro di sé lasciava il paese, la divisa, una vita tenuta in equilibrio. Davanti, non sapeva cosa ci fosse. Ma per la prima volta non stava più cercando di tenere insieme due mondi. Aveva scelto da che parte stare. L’accoglienza restò dura. Non ci fu alcuna distensione vera, solo un cambiamento di equilibrio. Cesare lo capì subito: lo stavano lasciando entrare, non lo stavano accogliendo. Il Biondo lo fissava come si fissa qualcosa che può esplodere.

– Qui ti conosciamo tutti – disse – e conosciamo anche le storie. Chêli vèci[21]. Quelle che non si dimenticano.

Non fece nomi. Non ce n’era bisogno. Baldini insistette. Non alzò la voce, ma non mollò.

– Negli ultimi mesi – disse – ha fatto il doppio gioco con Keller. L’ha portato dove non c’era niente da trovare. Ha tenuto lontani i rastrellamenti veri. Ha guadagnato tempo per tutti.

Qualcuno rise senza allegria.

– Un tedesco meno feroce non fa un compagno – disse una voce.

– Un tedesco che non entra nelle case fa la differenza – rispose Baldini – soprattutto per chi ci vive.

Il Biondo scosse la testa.

– Le storie non bastano. Qui non si entra per buona condotta.

Cesare restava in piedi, immobile. Non cercava di difendersi. Sapeva che non c’era una frase giusta. Fu allora che dal buio si staccò una figura. Non era tra quelli che parlavano. Non lo era quasi mai. Fece due passi avanti, fino a farsi vedere.

– Io c’ero – disse.

– Dove? – chiese il Biondo.

– Sul crinale.

Ci fu un movimento istintivo, come se tutti avessero capito prima ancora che lo dicesse.

– Ho visto Montanari buttare giù il fascista.

Il silenzio che seguì non fu sollievo. Fu un vuoto che chiedeva di essere riempito.

– Senza dire niente – aggiunse l’uomo – senza teatro.

Baldini non intervenne. Lasciò che fossero quelle parole a lavorare. Il Biondo si passò una mano sul viso.

– Questo non lo rende dei nostri – disse – ma vuol dire che non può più tornare indietro.

Guardò Cesare.

– Qui dentro ti teniamo d’occhio anche quando vai a fare i tuoi bisogni. A dì de sémpar de sé, u s’pasa par bacioc[22].

Qualcuno annuì. Non c’era ostilità aperta, ma nemmeno fiducia. Solo una tolleranza armata.

– Non sei qui perché ti crediamo – continuò il Biondo – sei qui perché sei già compromesso.

Cesare annuì. Gli fecero segno di sedersi. Non era un invito cordiale, ma non era un rifiuto. Baldini si sistemò accanto a lui, come se quello fosse l’unico posto possibile. Intorno, le voci ripresero piano. Nessuna festa, nessun brindisi. Solo la consapevolezza che una linea era stata attraversata. Non era entrato in un nuovo mondo. Era entrato in uno spazio senza ritorno, dove ogni giorno sarebbe stato una prova. Ma, in ogni modo, l’era mei un brut andè che un bel stè[23].


Romanzo romagnolo

[1] Inveiva, inveiva a lungo: vaneggiava.

[2] Perché per loro era uno come loro.

[3] Era polizia armata.

[4] Si chiamava.

[5] Vale a dire Maresciallo capo

[6] Diceva il necessario, mai di più.

[7] Lasciava fuori il resto.

[8] Parlano di colpire. Dicono che stare fermi è peggio.

[9] Lo guardava senza muoversi

[10] Nessuno urla allo stesso modo due volte.

[11] Senza rabbia, senza esitazione.

[12] Il fumo, nella valle, si alzava ancora.

[13] L’ho ammazzato.

[14] Quello che comandava, adesso non comanda più.

[15] E adesso?

[16] Adesso penseranno a un attacco. Si terranno lontani per un po’. Ma non sarà come prima.

[17] A far delle frittate si devono romper delle uova.

[18] Ragazzetto.

[19] Da adesso sei un altro.

[20] Sono io. Baldini.

[21] Quelle vecchie.

[22] A dire sempre di sì, si passa per sciocchi.

[23] Era meglio un brutto andare che un bel stare.

Una replica a “Tra i due crinali”

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