Chi l’ha deciso?

La chiamata non arrivò con un suono, ma con un movimento che attraversò il paese. A Dovadola, il telefono non era una cosa privata. Stava in posta, dietro il banco, e quando squillava non cercava una persona: cercava qualcuno che contasse abbastanza da rispondere. Il funzionario ebbe un sobbalzo quando sentì la voce del centralino.

– L’è Furlè. È Forlì.

Non abbassò la voce. Non c’era ragione di farlo. Mandò fuori un burdlèt, di corsa.

– Corri dal maresciallo – gridò – che c’è la Questura in linea.

Cesare Montanari stava rientrando verso casa quando lo intercettarono. Il ragazzo aveva il fiatone e quella fretta che in paese si vedeva solo quando la cosa non poteva aspettare.

– Maresciallo, c’è Forlì. In posta.

Cesare non accelerò. Cambiò direzione. Era abituato a quel tono. Da quando, dopo la guerra e gli anni agitati del dopoguerra, il Corpo degli Agenti di Pubblica Sicurezza era stato riorganizzato, il suo grado non era più solo un segno sulla manica. Un maresciallo d’alloggio comandava davvero: uomini, turni, equilibri fragili. Era quello che faceva funzionare le cose. In posta c’era odore di carta umida e inchiostro vecchio. La centralinista gli fece cenno verso il telefono, ma non si allontanò. La riservatezza, lì, era una parola senza applicazione. I mùrt i s’ slònghena e i vîv i s’ sotîghena. I morti si allungano e i vivi si assottigliano. Cesare prese la cornetta.

– Montanari.

Dall’altra parte una voce pulita, ufficiale, senza inflessioni.

– Domani mattina si presenti in Questura, a Forlì. Entro le otto.

– Posso sapere per che motivo?

Una pausa breve, calibrata.

– No.

La linea restò aperta un istante di troppo, poi cadde. Cesare riappese senza guardare nessuno. La centralinista sistemava dei moduli che non avevano bisogno di essere sistemati. Aveva sentito tutto. In paese, quando parlava la Questura, non serviva origliare. Cesare uscì e attraversò la piazza con passo regolare. Non tornò a casa. Andò dritto al Caffè della Piazza. Dentro c’era il solito miscuglio di fumo, voci basse e carte che scivolavano sui tavoli del maraffone.

– Domattina alle sei – disse al banco – un posto sulla corriera.

Il gestore segnò il nome sul foglio unto senza fare domande. Era la corriera della SITA, il BL 18 che faceva la valle ogni giorno, con qualsiasi tempo. Era nata a Torino nel 1912, per iniziativa della Fiat e di altri soci. All’inizio pochi collegamenti, sperimentali, quasi un’appendice dell’industria. Tra le due guerre si era radicata davvero: prima tre regioni – Piemonte, Toscana, Basilicata – poi, senza clamore, il resto d’Italia. Linee lunghe, ripetitive, pensate più per unire che per arrivare in fretta. Dove il treno non passava, passava la SITA. Cesare bevve un caffè corto, pagò e se ne andò. A casa preparò poco: documenti, il cappotto, niente che desse nell’occhio.

La mattina dopo, la piàza d’e Cumòn, piazza Umberto I, era già sveglia prima dell’alba. Il municipio incombeva come sempre, e la corriera occupava il centro dello spazio come una presenza naturale. Prima salirono i sacchi della posta, poi le cassette, qualche pacco legato con lo spago. Tutto finì sul tetto o dietro, tirato su con gesti antichi. L’autista controllò le cinghie, poi prese la tromba a pera e soffiò due colpi secchi. Il segnale era quello. Il paese restava indietro. Cesare salì e si sedette vicino al finestrino. Intorno a lui c’erano uomini che conosceva di vista. Tutti andavano a Furlè per una ragione precisa. C’era chi aveva commissioni in Comune, chi doveva passare dal mercato. Qualcuno parlava già di cosa avrebbe riportato indietro: stoffa buona, un attrezzo, una notizia. La città era anche questo: un posto da cui tornare con qualcosa. Un uomo tirò fuori una lista piegata più volte, la rilesse come una formula da non sbagliare. Un altro discuteva di prezzi prima ancora di arrivare. Nessuno viaggiava per guardare. Tutti viaggiavano per tornare.

La corriera prese la strada lungo il Montone e Dvêdla si chiuse alle spalle senza saluti. Il fiume correva basso, i campi ancora scuri. Cesare osservava i compagni di viaggio riflessi nel vetro. Gente che faceva contare ogni spostamento. Come lui. A Terra del Sole e Castrocaro la sosta fu più lunga. Voci, cambi di posto, poi di nuovo silenzio. Superata Porta Schiavonia, Forlì cominciò davvero. Più rumore, più odori, più fretta. Cesare tirò il campanello e scese prima del capolinea. Gli altri sarebbero andati verso il mercato o la stazione. Lui no.

La Questura lo accolse senza cerimonie. Era già pieno giorno quando Cesare varcò il portone di Palazzo Tartagni Marvelli, e dentro l’aria aveva quell’odore misto di carta, fumo spento e fretta che non apparteneva né alla notte né al mattino. Quel posto funzionava così: sempre in anticipo su qualcuno, sempre in ritardo su qualcos’altro. Per lui il viaggio era finito lì. E quello che lo aspettava non si sarebbe potuto riportare a casa, né spiegare al Caffè della Piazza.

Il questore lo fece entrare quasi subito. Non lo lasciò attendere, e già quello era un segnale. Era un uomo che conosceva Cesare da anni, abbastanza da sapere quando una convocazione era ordinaria e quando no. Quella no. Lo accolse con un sorriso che non riuscì a reggere fino in fondo. Si mosse troppo, sistemò una penna che era già dritta, fece due passi inutili dietro la scrivania.

– Montanari… grazie di essere venuto subito.

Cesare non rispose. Si limitò a restare in piedi, come si fa quando si capisce che sedersi sarebbe una concessione fuori luogo. Il questore abbassò la voce, ma non per discrezione. Piuttosto per istinto.

– Guardi… io non so quasi nulla. – Fece una pausa, poi aggiunse, come a giustificarsi: – E non lo dico per modo di dire.

Aprì il cassetto, lo richiuse. Evitava di guardarlo negli occhi.

– Mi hanno chiamato dal Ministero ieri sera. – Deglutì. – Mi hanno detto di convocarla e di metterle a disposizione una stanza. Solo questo.

Cesare sollevò appena un sopracciglio.

– Una stanza?

– Sì. – Il questore indicò il telefono sulla scrivania. – Dovete rispondere voi. Da solo. Io… – fece un gesto vago – io non devo esserci.

Era un imbarazzo vero, quello. Non la paura dell’uomo debole, ma quella del funzionario che capisce di essere diventato un passaggio, non più un nodo. La Questura, per una volta, non decideva nulla. Prestava solo un muro e un apparecchio.

– Quando chiamano? – chiese Cesare.

– Non l’hanno detto. – Il questore fece un mezzo sorriso amaro. – Hanno detto solo: “Aspetti”.

La stanza era piccola, spoglia, con una finestra che dava sul cortile interno. Un tavolo, due sedie, il telefono. Nessun ritratto, nessun simbolo. Come se quel posto dovesse essere dimenticato subito dopo. Il questore lo accompagnò fino alla porta e si fermò sulla soglia.

– Montanari… – disse, poi si interruppe.

Si voltò e chiuse la porta alle sue spalle. Cesare restò solo. In piedi, le mani dietro la schiena. Il telefono sembrava più grande del necessario, come se occupasse più spazio di quello che gli spettava. Passarono minuti che non si lasciavano contare. Poi il trillo arrivò, netto, senza esitazioni. Cesare sollevò la cornetta.

– Montanari.

La voce dall’altra parte era piatta, ben educata, priva di inflessioni regionali. Una voce abituata a non spiegare.

– Buongiorno. Le parlo per incarico diretto della Presidenza del Consiglio. – Pausa breve. – Deve presentarsi a Roma. Oggi.

Cesare non fece domande. Sapeva quando non servivano.

– A Palazzo Chigi. – continuò la voce – Ingresso funzionari. In borghese. Nessuna comunicazione scritta. Nessun accompagnatore.

– Quando? – chiese Cesare.

– Subito. – La risposta fu secca. – Prenda il primo treno utile.

Un silenzio misurato cadde sulla linea. Poi la voce aggiunse:

– Si tratta di una questione delicata. È importante che non venga visto come un atto ufficiale.

Cesare guardò il telefono, come se potesse leggere qualcosa oltre la voce.

– Ho capito.

– Bene. A Roma sapranno che arriva.

La linea cadde senza saluti. Cesare rimase ancora un istante fermo, poi riappese. Uscì dalla stanza e trovò il questore che lo aspettava in corridoio, fingendo di consultare un fascicolo.

– Deve andare a Roma – disse Cesare, come se stesse parlando del tempo.

Il questore annuì, sollevato di non dover chiedere altro.

– Le preparo un lasciapassare?

Cesare scosse la testa.

– Grazie. Non serve.

Scese le scale senza fretta. Fuori, Forlì continuava a fare il suo rumore ordinario. La Questura tornava a essere ciò che era sempre stata: un edificio che funzionava, anche quando non capiva. Cesare, invece, aveva già cambiato piano. Quando ti chiamavano senza spiegare, senza carta, senza testimoni, voleva dire che quello che avresti sentito non doveva restare da nessuna parte. Se non nella testa. Ognón e sa e’ sô, inciò e sa quèl d’j’êter. Ognuno sa il suo, e nessuno sa quello degli altri.

Arrivò alla stazione a piedi, con il cappotto chiuso e la testa sgombra quanto bastava. Era ancora quella vecchia, ottocentesca, poco lontano dalla Barriera Mazzini, dove la città finiva e cominciava qualcos’altro. Bassa, allungata, annerita dal fumo, sembrava vivere di inerzia, come se sapesse di essere provvisoria anche senza una data scritta addosso. Poco più in là, oltre i binari e i cantieri, si intravedeva già la nuova stazione in costruzione: impalcature, murature chiare, volumi più ambiziosi. Un edificio pensato per essere visto, non solo usato. Cesare la guardò appena. Capì che Forlì stava preparando il suo futuro mentre lui partiva verso un passato che stava diventando un’altra cosa.

Quando salì sul treno non comprò nulla. Mostrò la tessera. Il controllore la guardò appena, il tempo di riconoscere un diritto che non aveva bisogno di spiegazioni, e fece un cenno minimo, quasi distratto. Seconda classe. Quella di chi viaggiava perché doveva. Sedili imbottiti, velluto scuro consumato nei punti giusti, finestrini che lasciavano entrare aria e fuliggine. Ogni cosa portava addosso le tracce di chi era passato prima.

Cesare si sedette vicino al vetro. Non aprì giornali, non cercò distrazioni. E guardéva. La stazione scivolò indietro lentamente: prima la Ravegnana, poi i muri bassi, i depositi, le ultime case. Forlì si sfilacciava senza rumore, lasciando spazio ai campi. Pensò che le città facevano sempre così: cambiano prima di essere pronte, e quando te ne vai capisci che non sono più quelle che credevi. Roma lo aspettava avanti, e non sarebbe stata la stessa neppure lei.

La campagna romagnola scivolò ordinata, poi la linea piegò verso sud. Campi, argini, stazioni minori dove uomini restavano fermi come se aspettassero altro. Ogni fermata allungava il tempo. Ad Ancona cambiò convoglio: stesso odore di carbone, stessa lentezza. La linea per Roma u s’infiléva in ti Appennini come un pensiero ostinato. Gallerie brevi, vallate strette, fiumi che cambiavano nome. Fabriano, poi Foligno, poi Terni. Le montagne lasciavano spazio a piane più larghe, il cielo si apriva. Cesare seguiva i panorami senza affezionarsi. Capì che non era una convocazione ordinaria: il viaggio serviva a toglierti le abitudini, una per una. Arrivò a Roma Termini nel tardo pomeriggio. La stazione era ancora quella ottocentesca, severa, fatta per smistare persone. Appena sceso, un uomo gli si avvicinò con naturalezza. Camicia nera sotto la giubba grigio-verde, i fregi con il fascio littorio e la ruota alata ben visibili. Milizia Ferroviaria. Non disse il nome.

– Venga.

Uscirono insieme, senza fretta. Roma aveva già preso il suo passo. Camminarono fino a via del Pellegrino, nel groviglio tra Parione e Regola, a due passi da Campo de’ Fiori. Mercati che smontavano tardi, tipografie ancora accese, botteghe con l’odore di legno e vino. Qui il passaggio continuo proteggeva meglio di qualsiasi documento. La pinsión la staséva d’ciòra a una butéga. Portone chiuso. L’agente si fermò e tirò la cordicella. Dentro si sentì trascinare una sedia.

– Aho, chi è? – la voce della vitturina arrivò ruvida.

– Milizia – rispose l’uomo, piano ma fermo.

Un attimo di silenzio, poi il chiavistello. La donna apparve con lo scialle sulle spalle, gli occhi stretti.

– Che ve serve mo’? È tardi.

– Niente drammi, sora. È ‘n ospite. – L’agente fece un mezzo sorriso che non chiedeva permesso. – Sta qui pe’ quarche ggiorno.

La vitturina guardò Cesare dalla testa alle scarpe.

– E ‘sto fijo de ‘nnamo chi sarebbe?

– Uno che dorme e paga – disse l’agente. – E che la mattina esce presto.

La donna sospirò, si fece da parte.

– Annate, annate. Ma ricordateve ‘r passo, eh. Dopo ‘na certa se sona. E se dormo, dormo.

– Se sona, se sona… – confermò l’agente.

Salirono per le scale ripide. La stanza era piccola, pulita quanto bastava. Sul letto un cambio in borghese: giacca vissuta, camicia semplice, scarpe usate. L’agente indicò l’orologio.

– Domani alle otto. – Poi, verso la porta: – E nun rientra tardi. Qui se sona!

– Ho capito.

Scesero insieme. La vitturina li aspettava sul pianerottolo.

– Senta – disse lei, puntando Cesare – si rientra co’ la luna, se sona. E io nun apro pe’ scherzo.

– Nun ce sarà bisogno – disse l’agente. – È uno tranquillo.

La donna bofonchiò:

– Tranquillo, tranquillo… lo dite sempre.

Il portone si richiuse. L’agente fece un cenno e se ne andò. Cesare tornò su. Guardò le scarpe sul letto: anonime, giuste. Le sue d’ordinanza, no. Le mise da parte. In quei tempi bastavano calzature robuste e baffi troppo curati per farti riconoscere. Aprì la finestra. Campo de’ Fiori e respiréva: i carét, al vôus, i bicìr. Qui nessuno faceva domande se pagavi in anticipo e rispettavi il passo. Passò una mano sul viso. Avrebbe lasciato crescere la barba di qualche giorno. Il resto lo avrebbe sistemato al mattino, tra i banchi. Roma, quella sera, gli offriva l’incognito. E lui lo prese senza ringraziare.


Arrivò a Palazzo Chigi quando Roma stava ancora sbadigliando. Il miliziano della Ferroviaria lo accompagnò senza una parola, come si accompagna un pacco che non deve attirare attenzione. Cesare indossava gli abiti trovati sul letto della pensione: giacca qualsiasi, scarpe consumate, il taglio giusto per confondersi. Entrarono da un accesso secondario, poi per scale di servizio che odoravano di pietra umida e cera. Nessun saluto, nessun nome. La sala d’attesa era laterale, quasi nascosta. Una sedia, un tavolo, una finestra alta. Aspettò. Non sapeva quanto. Cesare aveva imparato che a Roma l’attesa non è tempo perso: è parte del messaggio. Quando la porta si aprì, Benito Mussolini entrò con passo elastico, insprì, eccitato come se stesse salendo su un palco. Si fermò davanti a Cesare, lo guardò dall’alto in basso, poi scoppiò in un mezzo sorriso.

– Montanari! – disse. – Sempre serio, eh? Neanche a Roma ti siogli?

Il tono era beffardo, volutamente leggero. Era il Mussolini che si concedeva quando parlava con uno delle sue terre, uno che aveva già usato e che poteva usare ancora.

– L’ultima volta che ci siamo visti, cl’ètra vólta – continuò – ti avevo chiesto una passeggiata un po’ particolare.

Non pronunciò nomi. Non ce n’era bisogno.

– A t’arcurdêt? – fece, inclinando la testa. – Dovevi guardare, non fare. E invece hai fatto anche un po’ di più.

Cesare restò in silenzio. Mussolini rise piano.

– No fè cla fàza. Non fare quella faccia. Mi sei stato utile. – Poi abbassò la voce. – E quando uno mi è utile, me lo ricordo.

Si girò attorno, come se stesse mostrando una stanza che conosceva a memoria.

– Roma, invece, dimentica in fretta. – disse. – O finge.

Lo guardò di nuovo.

– Vedo che sei ancora senza tessera. – accennò al bavero. – Un vezzo da campagnoli.

Cesare non rispose.

– Tranquillo. – continuò Mussolini, con finta indulgenza. – A breve sarà un obbligo per tutti voi della pubblica sicurezza. Così nessuno resta fuori dal coro.

Fece una pausa, poi aggiunse, quasi divertito:

– Per non mettere in imbarazzo un vecchio commilitone, la troverai già in caserma quando torni a Dovadola. Bella pronta. Così risparmiamo tempo.

Il sorriso sparì senza annunci. Mussolini cambiò tono come si spegne una luce.

– C’è stato un incidente. – disse. – Un funzionario del mio Ministero.

Si sedette, prese una cartella che non aprì.

– Ho letto il rapporto. – continuò. – Poi ne ho letto un altro.

Alzò lo sguardo.

– Sono fatti bene. – Una pausa. – Troppo.

Non spiegò oltre. Non ce n’era bisogno.

– Voglio capire chi ha avuto tanta solerzia. – concluse. – Nient’altro.

Si alzò. Il colloquio era finito.

– Ne parlerai con lui.

Dalla parete si staccò Alessandro Chiavolini, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Non disse nulla. Aspettò che Mussolini uscisse. Prima di andarsene, il Duce si voltò ancora, con quell’aria di scherno familiare che usava come una carezza storta.

– Montanari, – disse – quando tutti sono d’accordo, di solito qualcuno sta lavorando troppo. Vai a vedere chi è.

Uscì. La porta si richiuse piano.

Chiavolini fece un cenno asciutto.

– Venga. – disse. – Qui conviene muoversi leggeri.

Cesare lo seguì, riconoscendo la voce sentita solo il giorno prima al telefono in Questura a Forlì.

Aveva sistemato le cose come si sistemano le operazioni che non devono esistere: riducendo le persone coinvolte al minimo indispensabile.

– L’uomo che l’ha accompagnata – disse – domattina la passerà a prendere per portarla al Ministero dell’Interno e presentarla alla persona giusta. Non sa altro. Non deve sapere altro.

Cesare annuì.

– Quella persona – continuò – conosce solo la sua copertura. Reduce. Ex commilitone del Duce. Uomo semplice. Poco sveglio, se serve. Fattorino. Fine della storia.

Fece una pausa breve, poi aggiunse:

– Nessuno, oltre a noi tre, conosce il motivo per cui voi siete qui qui.

“ Noi tre ” voleva dire una cosa precisa: il Duce, Chiavolini, lui. Nessun altro. Aprì una cartella sottile e la spinse verso Cesare.

– Qui c’è quello che è stato scritto sull’incidente. – disse. – Lo legga.

Cesare lo fece. Giulio Ferretti, funzionario ministeriale, caduto nel Tevere di notte. Soccorsi rapidi, esito fatale. Nessuna violenza evidente. Nessun movente. Un incidente.

– Il problema – disse Chiavolini – non è ciò che c’è scritto. È che è tutto troppo liscio.

Chiuse la cartella e la riprese.

– Niente appunti. – ricordò. – Niente copie. Se qualcosa le resta in testa, bene. Altrimenti non serve.

Indicò l’orologio.

– Se deve parlare con me, lo fa passando dal referente che le ho indicato. Una sola persona. Tutti gli altri sono rumore.

Poi lo guardò con attenzione, senza durezza, ma senza concessioni.

– Il Duce si fida di voi. – disse. – Io no.

Non era un’accusa. Era un metodo di lavoro.

– Vada a riposare. – concluse Chiavolini. – Tornerà dove ha dormito la notte scorsa. Quella pensione va bene così. Domani comincia a portare carte. E a sentire quello che non è scritto da nessuna parte.

La porta si chiuse piano.


Cesare fu accompagnato attraverso la piazza del Viminale senza rallentare. Spazio ampio, quasi vuoto, spazzato dal vento. Poche auto scure parcheggiate in ordine, FIAT ministeriali con l’autista in attesa, il cappotto sulle spalle e la sigaretta accesa come unico gesto concesso. Davanti, il palazzo era tutto proporzioni e distanza: fatto per essere guardato da lontano. Non entrò da lì. Costeggiò il fronte, girò l’angolo e imboccò l’accesso laterale. Un portone basso, usurato, senza insegne. Un agente controllò il lasciapassare, lo restituì senza commenti. Dentro, il corridoio era stretto, il marmo opaco. Odore di cera e carta. I passi non rimbombavano, si spegnevano. Cesare avanzò senza fermarsi. Non parlò con nessuno. Osservò. Funzionari con il fascicolo sotto il braccio, colletti rigidi, scarpe lucide. Camminavano veloci, senza guardarsi, come se il tempo fosse già assegnato. Uscieri anziani, divisa blu scura, sguardo senza espressione. Fattorini come lui, anonimi, tollerati.

Il primo giorno cominciò presto e finì senza un orario preciso. L’uomo della Milizia lo consegnò a un capoufficio che sapeva solo quello che doveva sapere, poi sparì. Da quel momento Cesare non ebbe più scorta, né protezione visibile. Gli diedero una giacca di servizio, un tesserino provvisorio, un elenco di percorsi. Niente spiegazioni. Portare carte da un ufficio all’altro, aspettare fuori dalle porte, tornare indietro. I corridoi erano lunghi, consumati, pieni di porte tutte uguali. Ministeri e sottosegretariati, fuori dalle zone aperte al pubblico, si somigliavano più delle caserme. Stesso odore di carta, di inchiostro, di tabacco freddo. Stessa aria di attesa. Cesare imparò subito i percorsi: sempre gli stessi, sempre allo stesso orario. La ripetizione era una forma di protezione: dopo due giorni nessuno lo notava più. Prese servizio proprio nell’ufficio dove aveva lavorato Ferretti. Nessuno lo disse apertamente, ma si capiva. La scrivania vuota era stata occupata in fretta. Le carte, redistribuite. Le abitudini, cancellate come se non fossero mai esistite. I colleghi erano quelli che si trovano sempre in quei posti. Ex soldati, reduci come lui. Qualcuno con una gamba rigida, qualcuno con una mano che non chiudeva più. Miracolati, li chiamavano. Gente che aveva ottenuto un impiego perché aveva resistito abbastanza a lungo. Non lavoravano molto. Passavano il tempo.

Parlavano tanto. Parlavano del Duce, soprattutto. Con la sicurezza di chi non rischia più nulla. Dicevano che avrebbe messo ordine, che avrebbe spazzato via i vecchi sistemi, che finalmente qualcuno comandava sul serio. Lo dicevano con entusiasmo o con pigrizia, ma lo dicevano tutti. Cesare ascoltava. Non faceva domande. Bastava stare lì, portare una cartella, fermarsi un attimo di troppo.

– Qui cambierà tutto – disse uno, un giorno, con il braccio corto nascosto sotto la giacca. – Vedrete.

– Già – rispose un altro. – E chi s’è mosso prima, adesso sta avanti.

Le lingue si scioglievano così. Non per fiducia, ma per abitudine. In quell’ufficio nessuno aveva paura di un fattorino. Nessuno pensava che un uomo che portava carte potesse ricordare i nomi, collegare le frasi, riconoscere i silenzi. Cesare faceva i suoi giri. Sempar uguel. Ministero, uffici secondari, archivi, corridoi. Portava documenti che non doveva leggere, ma vedeva le intestazioni, i timbri, le firme che tornavano. Sentiva chi parlava troppo e chi non parlava mai. Capì una cosa semplice: lì dentro nessuno aveva ucciso nessuno. Ma molti erano convinti che fosse stato giusto chiudere in fretta. Perché il problema non era Ferretti. Il problema era che qualcuno aveva fatto domande quando non era il momento. E questo, nei corridoi, lo sapevano tutti. Anche se nessuno lo diceva per intero.

Dopo qualche giorno Cesare smise di seguire i percorsi e cominciò a seguire le reazioni. Non serviva altro. C’era chi abbassava la voce quando passava, senza sapere bene perché. Chi interrompeva una frase a metà. Chi, al contrario, parlava più forte, come per marcare il territorio. E poi c’erano quelli che gli affidavano le carte con una leggerezza studiata, come se un fattorino fosse un prolungamento del muro. I nomi tornavano sempre negli stessi punti. Non venivano mai detti per intero. Bastava l’iniziale, o un accenno. E uno, più degli altri, passava di bocca in bocca con una cautela che non era rispetto: era paura. Una mattina, fermo vicino a una finestra, Cesare li sentì arrivare. Quattro colleghi, reduci tutti, appoggiati al davanzale. Fumo, giacche slacciate, quella confidenza da ufficio che nasce quando nessuno crede più di essere ascoltato.

– Oh, ma Ferretti… – fece il primo, soffiando il fumo – quello nun l’aveva capito che aria tirava.

– Ma quale aria – rispose il secondo – quello stava ancora a fa’ er ministeriale de prima. Carte, regole… ma dove pensava de sta’?

– Eh, appunto – intervenne il terzo. – Qui se campa se capisci da che parte gira er vento. Se no, te gira addosso.

Il quarto fece un mezzo sorriso.

– E infatti guarda Achille.

Non disse il cognome. Non serviva.

– Morselli? – chiese piano il primo, quasi a completare la frase. – Quello sì che c’ha er naso bono.

– Achille ha capito tutto subito – disse il secondo. – Senza fa’ casino. Senza domande. Ha messo ‘a testa bassa e s’è mosso.

– E mo’ sta avanti – concluse il terzo. – Mica come quell’altro.

– Ferretti era uno che voleva capì – fece il quarto, con una scrollata di spalle. – Morselli invece nun capisce: esegue. È ‘n’altra cosa.

Ci fu un attimo di silenzio. Uno schiacciò la sigaretta.

– A me me dispiace pure, eh – riprese il primo – però che je dovevi dì? Nun era er momento de fa’ l’onesto.

– Nun è mai er momento – disse il secondo. – Ma c’è chi lo capisce e chi no.

– E chi lo capisce campa – aggiunse il terzo. – E magari pure sale.

Il nome tornò ancora, sussurrato.

– Achille… – disse qualcuno. – Quello nun sbaja.

Nessuno rise. Nessuno fece battute. Il nome rimase lì, sospeso, come una cosa che non si tocca.

– Vabbè, annamo – disse il quarto. – Che se ce vedono troppo a parlà poi pare brutto.

Si allontanarono. Il corridoio riprese a respirare.

Cesare restò un attimo fermo. Aveva visto il contrasto farsi chiaro: Ferretti era quello che chiedeva perché. Morselli quello che non chiedeva nulla. Il nome continuava a tornare, sempre allo stesso modo. Mai detto forte. Sempre accompagnato da una cautela rispettosa. Non ammirazione vera. Qualcosa di più utile: il riconoscimento di chi ha capito prima degli altri come sopravvivere. Riprese il suo giro. Le carte sotto il braccio non pesavano. I nomi, invece, sì.


Cesare capì presto che al Ministero il tempo non aveva valore. Nessuno firmava registri, nessuno controllava orari. Il lavoro era considerato una facoltà, non un dovere. Bastava non farsi notare. Andare cauti: e bsògna fè e’ pas segónd la gàmba. Approfittò di quell’inerzia per allargare i movimenti, come se facesse parte del naturale disordine romano. Una sera, rientrato alla pensione, chiese alla vitturina dove potesse trovare una bicicletta. Lei lo guardò, scoppiò a ridere e si asciugò le mani nel grembiule.

– ‘Na bicicletta? A Roma? – disse. – Rubbala. Poi lo squadrò meglio. – No… lo so che nun lo fai. C’hai ‘na faccia… pijia er tram. È mejo.

Cesare fece come diceva lei. Prese il tram. La linea correva verso est lungo la Casilina, lasciandosi alle spalle il centro. Le case si abbassavano, i cantieri aumentavano, le strade cambiavano nome senza cambiare direzione. Scese più volte nello stesso punto, percorse i quartieri a piedi, imparò le abitudini. La zona di Tor Pignattara era ancora una terra di mezzo. Strade nuove innestate su percorsi antichi, come la vecchia via di Porta Furba che teneva insieme due consolari. Vie dedicate a costruttori di fortificazioni da una parte, aviatori dall’altra: nomi recenti appoggiati su un quartiere che cresceva senza un centro vero, per aggiunte successive. Il tram a binario unico arrivava fin lì come un filo teso da Termini; intorno, botteghe, cantieri, cinema appena aperti. Odore di calce fresca e di ferro lavorato, mescolati alla polvere.

La stazione di polizia stava defilata, funzionale, senza retorica. Cesare prese le misure del posto, una sera dopo l’altra. Si appostò poco distante, sempre nello stesso punto, confuso tra chi tornava dal lavoro e chi aspettava il tram. Non guardava la porta: guardava il ritmo. Quando finalmente Sergio Valenti uscì, era già tardi. Non indossava la divisa. Cappotto scuro, passo lento, quello di chi ha passato la giornata a contenere problemi che non gli appartengono. Cesare lo lasciò allontanare di qualche decina di metri, poi si staccò dal muro e gli si affiancò, come se si fossero dati appuntamento senza dirlo.

– Valenti.

L’altro si voltò, poi lo riconobbe.

– Montanari… – disse. – Che ci fai da ‘ste parti?

– Roma – rispose Cesare. – Mi c’hanno spedito per un concorso. Roba d’ufficio.

Camminarono insieme senza fermarsi. La strada scorreva piatta, con i binari del tram che luccicavano sotto i lampioni.

– Io so’ rimasto qua – disse Valenti, dopo un po’. – Finita la guerra me so’ ritrovato senza mestiere. Prima i turni, poi ‘sto posto. Nun è er fronte, ma nun se spara.

– Io sono tornato a Dovadola – rispose Cesare. – Un po’ di servizio, un po’ di niente. La guerra ce l’avevamo addosso e manco ce ne siamo accorti.

Valenti annuì.

– A me m’ha fregato ‘na scheggia – disse, indicando la gamba. – Nun m’ha fatto fuori, ma manco m’ha lasciato in pace. Qui almeno me siedo.

– È già qualcosa – disse Cesare.

Passarono davanti a un cantiere. Operai che lavoravano anche di sera. Il quartiere cresceva mentre loro parlavano.

– E mo’? – chiese Valenti. – Te sei rimesso in mezzo ai ministeri?

– Per poco – rispose Cesare. – Giusto il tempo di capire come tirano le correnti.

Valenti fece un mezzo sorriso.

– E come tirano? Tirano sempre uguale, eh.

Si fermarono davanti a una trattoria. Odore di vino e di cucina semplice.

– Se hai fame – disse Cesare – offro io.

Si sedettero in fondo. Mangiarono, bevvero. Parlarono ancora della guerra, dei nomi che non tornavano, dei posti dove erano stati mandati senza sapere perché. Poi Cesare disse quello che doveva dire. Poco. Che cercava una verifica discreta. Che non era una cosa ufficiale. Che bastava sapere chi fosse un uomo, Achille Morselli, capire come si muoveva, chi lo frequentava.

– Fidati – disse. – Non ti chiedo altro. Non devi sapere altro.

Valenti rimase in silenzio, poi annuì.

– Una settimana – disse. – Qui.

Si alzarono senza stringersi la mano. Uscirono separati. Cesare tornò verso la fermata. Il tram passò di nuovo, facendo vibrare la strada.


L’osteria era la stessa. Stessi tavoli di legno, stesso odore di vino aspro e di cucina che non faceva promesse. Cesare sedeva in fondo alla stanza, le spalle al muro, il cappello appoggiato sulla sedia accanto. Da lì vedeva la porta senza doversi girare. Era arrivato presto. L’attesa, quando serve, è una forma di disciplina. La settimana era passata lenta. Corridoi, registri che nessuno firmava, chiacchiere sempre uguali. E poi silenzio. Valenti non si era fatto vedere. All’inizio Cesare non ci pensò. Poi il ritardo cominciò a farsi notare. Pensò che avesse cambiato idea. Succede. Gente piegata, sì, ma fino a un certo punto. Quando capiscono che il gioco è più grande di loro, tirano il freno.

Stava per ordinare, giusto per non restare fermo troppo a lungo, quando la porta si aprì. Valenti entrò senza esitazioni, come uno che conosce il posto e non ha bisogno di guardarsi intorno. Cappotto chiuso, volto tirato. Vide Cesare solo all’ultimo momento e si sedette senza salutare.

– Scusame – disse. – Ho fatto tardi.

Cesare non rispose subito. Aspettò che arrivasse il vino.

– Pensavo non venissi – disse poi.

Valenti fece un mezzo sorriso, stanco.

– C’ho pensato. – Bevve un sorso. – Poi ho capito che tanto era inutile.

Restò un attimo in silenzio, come a scegliere le parole.

– Nun c’è voluto molto – aggiunse. – Er nome è noto. Troppo noto.

Cesare non fece domande.

– È uno che s’è fatto da solo… o almeno così racconta – continuò. – Arrivista puro. Fino a ieri stava zitto, aspettava. Poi, appena ha capito che aria tirava, s’è messo er fez in testa e ha cominciato a urlare più degli altri.

Fece un gesto vago con la mano.

– Fascistone dipinto. Di quelli che nun sbajano mai una parola, mai una posa. Sempre in prima fila quando c’è da farsi vede’. Prima nun contava niente, mo’ pare che è sempre stato lì.

Cesare ascoltava.

– Nun fa domande – proseguì Valenti. – Nun scrive niente che possa tornaje addosso. Capisce prima, se sposta prima. E soprattutto… – abbassò la voce – s’è sistemato bene.

Cesare alzò appena lo sguardo.

– S’è sposato Ada Capobianchi – disse Valenti. – La fija de Lello.

– Capobianchi nun è uno che firma – continuò. – È uno che fa. Mette insieme gente. Politica, affari, mala. Sta sempre un passo indietro, ma tiene i fili. E mo’ c’ha pure er genero al Ministero.

Bevve un altro sorso.

– Funziona sempre allo stesso modo – disse. – Morselli sente da che parte gira il vento, Capobianchi je sistema il percorso. Morselli arriva dove deve arrivare, Capobianchi je sta dietro. E poi er giro riparte.

Restarono in silenzio. Intorno, l’osteria continuava a vivere, ignara.

Il giorno dopo Cesare tornò al Ministero con l’aria di chi non ha niente di meglio da fare. Si inventò un lavoro in archivio. Bastava dire che mancava una pratica, o che un fascicolo andava ricollocato. Nessuno controllava davvero. Gli diedero una stanza laterale, scaffali alti, polvere vecchia. Lì dentro il tempo aveva un altro passo. Cercò Raffaele “Lello” Capobianchi. Il fascicolo c’era. Un’era brisa grós. L’era déns. Era denso. Niente condanne definitive, molte segnalazioni. Mediazioni, contatti, nomi che tornavano. Cesare lesse piano, come gli avevano insegnato. E riconobbe qualcosa che non avrebbe dovuto sorprendere: tra le persone in relazione con Capobianchi c’erano funzionari del Ministero. Nomi sentiti in queste settimane. Gente che passava le giornate nei corridoi, appoggiata alle finestre, a parlare del Duce come se fosse un parente lontano. La cosa non lo stupì. Poi, quasi alla fine, trovò un nome che gli fece rallentare il respiro: Ettore Mancini. Non gli disse nulla, all’inizio. Solo una sensazione. Una luce accesa e subito spenta. Sapeva di averlo già incontrato, o sentito nominare, ma non ricordava dove. Rimase fermo un attimo, con il fascicolo aperto. Provò a ricostruire. Niente. Gnìt. Richiuse tutto con calma, rimise il fascicolo al suo posto. Tornò ai corridoi, ai giri abituali. Quel nome continuava a tornare, senza appigli.

La sera rientrò alla pensione stanco come non gli capitava da giorni. La vitturina stava sparecchiando. Non gli chiese nulla. Salì le scale, si sdraiò sul letto con i vestiti addosso. Il nome girava ancora. Mancini. Ettore Mancini. Nel momento tra la veglia e il sonno, quando le cose non sono più ordinate ma non sono ancora perse, gli tornò in mente una voce. Non un ricordo, quasi un’eco. L’era la vôus d’Alessandro Chiavolini. S”e qualcosa le resta in testa, bene. Altrimenti non serve”. L’a n’sèrva a gnìt. Cesare smise di sforzarsi. Lasciò che il nome restasse dov’era. Poi si addormentò.


Il giorno dopo Cesare tornò a Palazzo Chigi. Stesso ingresso laterale, stesso percorso che evitava gli uffici e le domande. Chiese del contatto, usando il nome giusto e senza spiegazioni. L’uomo dietro la scrivania lo guardò di traverso, come si guarda chi arriva senza appuntamento ma non può essere respinto.

– Ci sarà da aspettare.

Lo fecero accomodare in una sala d’attesa diversa da quella del primo incontro. Più neutra, più consumata. Sedie rigide, un tavolo segnato, una finestra su un cortile interno. Cesare si sedette e aspettò. Senza protestare, senza muoversi. Passò la mattina. E pu e dóp mazdè. Ogni tanto qualcuno entrava, lanciava uno sguardo, usciva. Nessuno parlava con lui. L’attesa diventò un tempo pieno. A metà pomeriggio si appisolò, il cappello sulle ginocchia. Un abiòch. Verso le sei la porta si aprì piano. Alessandro Chiavolini si affacciò. Si fermò un istante, lo osservò, poi fece un colpo di tosse leggero. Cesare si svegliò subito.

– Scusatemi. Avrei bisogno di rileggere la relazione – disse Cesare.

Chiavolini non commentò. Tirò fuori la cartella, la appoggiò sul tavolo, la aprì. Cesare lesse in piedi, senza fretta. Le stesse pagine, la stessa storia ordinata. Cercava un dettaglio che ora sapeva di dover trovare. Quando richiuse, Chiavolini riprese la cartella.

– Ci sono novità?

Cesare scosse appena la testa.

– Non ancora.

Chiavolini lo guardò, aspettando. Poi:

– Domani a quest’ora verrete a riferire al Duce sull’avanzamento delle indagini.

Cesare rifletté un istante.

– D’accordo.

Chiuse la cartella con cura. Cesare fece un passo indietro. Chiavolini non rispose. Cesare uscì dalla stanza, riprese le scale di servizio e lasciò Palazzo Chigi com’era entrato. Aveva ancora tempo. E ora sapeva esattamente cosa cercare.

La mattina dopo Cesare tornò al Ministero. I corridoi erano gli stessi, ma ora li vedeva con un’altra misura. Notò di nuovo quelle facce che non appartenevano a nessun ufficio: uomini fuori posto, troppo sicuri per essere visitatori, troppo fermi per essere impiegati. Non facevano nulla. I staséva lè. Nessuno li fermava, nessuno li accompagnava. Erano lì come un oggetto spostato da poco: visibile, ma già integrato. Capì che quello era il livello. Non la violenza esibita, non l’intimidazione aperta. La presenza funzionale. Gente che non firmava atti, ma li rendeva possibili. Il cuscinetto tra chi decide e chi esegue.

Camminando, gli tornò in mente la voce di Valenti, detta senza enfasi: “così funziona”. Cesare non provò a ricostruire tutto, non ancora. Lasciò che i pezzi si disponessero da soli. Un funzionario che faceva domande diventava un problema. Un altro, più rapido a capire l’aria, si adattava. In mezzo, qualcuno che sapeva come togliere gli ostacoli senza sporcarsi le mani. Non serviva andare oltre. La storia completa non era affar suo, non in quel momento. A lui bastava che il meccanismo fosse leggibile, che avesse una logica interna. Cesare continuò il suo giro, portando carte che non lesse. Dentro, la ricostruzione era ormai stabile. E tanto bastava.

Alle diciassette e trenta Cesare si ripresentò a Palazzo Chigi. Stessa porta laterale, stesso corridoio di servizio. Questa volta, però, non dovette spiegare nulla. Era atteso. Fu fatto accomodare nella sala d’attesa del primo giorno: più ampia, più composta, con l’aria di un luogo dove il tempo serve a misurare le persone. Aspettò fino a notte fatta.

Quando la porta si aprì entrarono insieme Benito Mussolini e Alessandro Chiavolini. Mussolini camminava davanti, Chiavolini mezzo passo indietro. Nessuno dei due sembrava sorpreso di trovarlo lì. Cesare parlò poco. Si limitò a raccontare quello che aveva scoperto. Fu Chiavolini a prendere la parola, con tono piano, quasi didattico, come se stesse ordinando materiali su un tavolo.

– Dunque, i fatti sembrano stare così – disse Chiavolini. – Ferretti ha cominciato a fare domande quando non era più il momento. Passaggi amministrativi che non tornavano, pratiche che cambiavano percorso, gli stessi nomi che ricomparivano sempre negli stessi snodi.

Fece una breve pausa, come per tenere il filo.

– A un certo punto incrocia Achille Morselli. Funzionario intermedio. Uno che si allinea in fretta. Morselli, come sapete, è legato per matrimonio ad Ada Capobianchi. Figlia di Raffaele Capobianchi, detto Lello. Un mediatore conosciuto. Affari, politica, ambienti criminali. Un punto di passaggio.

Si spostò appena, senza cambiare tono.

– Poco dopo arriva l’incidente sul fiume. Archiviazione rapida. Relazione pulita. Nessuna anomalia visibile. Tra i presenti al recupero del corpo compare Ettore Mancini. Pregiudicato di lungo corso. Uomo d’azione. Già segnalato in pratiche che ruotano intorno a Capobianchi.

Chiuse il fascicolo, ma non il discorso.

– Non c’è una firma che comprometta. Non c’è un ordine scritto. Ci sono presenze. Sempre le stesse. Nel posto giusto, al momento giusto. Collegamenti indiretti, intermediazioni esterne, figure che non risultano mai nei documenti decisivi ma gravitano costantemente attorno alle soluzioni.

Alzò lo sguardo.

– Nessuna accusa formale possibile. Solo una sequenza che fila. Senza vuoti.

Mussolini ascoltava. A tratti guardava Cesare, a tratti fissava un punto indefinito sopra la testa di Chiavolini. Quando il riepilogo finì, rimase in silenzio qualche secondo. Poi cambiò postura. La voce uscì più tesa.

– La violenza – disse – non è un problema. Non lo è mai stata. È uno strumento! Come gli altri. Ma gli strumenti si tengono in mano.

Fece una pausa.

– Qui qualcuno ha deciso da solo. – disse. – Qualcuno ha pensato di poter usare la violenza senza passare dal centro.

La mascella si irrigidì.

– Chi l’ha deciso?! – esplose Mussolini, battendo il pugno sul tavolo. Il colpo secco fece tremare i bicchieri.– L’incidente non mi interessa. Non sono un prete. – continuò. – Mi interessa il controllo. Se la violenza diventa autonoma, non serve più a niente. Diventa un pericolo.

Batté una volta le dita sul tavolo.

– Questo non lo tollero.

Per un attimo lasciò affiorare l’irritazione. Poi si ricompose con la stessa rapidità. Tornò a guardare Cesare, quasi divertito.

– Voi romagnoli siete ancora utili – disse, con un mezzo sorriso. – Avete il vizio di guardare le cose da vicino.

Passò al tu.

– Sei stato utile, Montanari Cesare da Dovadola. Dvêdla. – aggiunse. – Come l’altra volta. Dopo Matteotti.

Fece una smorfia ironica.

– E sei ancora senza tessera. – disse. – Questa è bella.

Scosse il capo.

– Tranquillo. Quando torni a Dovadola la troverai già lì. Ormai è un dovere morale. E anche pratico.

Si avvicinò di mezzo passo.

– Sai qual è il problema, Montanari? – disse. – Qui sono circondato da forbiculari! Gente che mi dà sempre ragione prima ancora che parli. Chi tròp s’incìna, e’ móstra e’ cûl. Chi si inchina troppo mostra il culo! Ogni tanto devo tornare a sentire quelli delle mie colline, per sapere come stanno davvero le cose. Fece un gesto vago.

– Ma non esagerare.

Si voltò per uscire. Aveva già fatto due passi quando si fermò. Restò immobile un istante, poi tornò indietro. Non sorrideva più. Si mise davanti a Cesare, troppo vicino per essere solo una confidenza.

– Ti ricordi – disse – quando ci siamo incontrati in guerra? Per quel povero prete?

Non era una domanda. Cesare non rispose.

– Dopo che te ne sei andato – continuò Mussolini – ho visto cosa è successo. Le conseguenze, intendo. Tutto molto… ordinato.

Abbassò la voce, quasi distratto.

– Qualche mese fa ho chiesto al Ministero della Guerra l’incartamento. Volevo rileggerlo. – Fece una pausa breve. – Non ho trovato nulla.

Lo guardò negli occhi, con ironia.

– Gnìt d’posta.

Si raddrizzò, come se la cosa non avesse peso.

– Le carte spariscono! – spostò lo sguardo. – Una di queste volte mi racconterai com’è andata.

Poi si girò davvero e uscì, lasciando la stanza improvvisamente spoglia, la frase sospesa, come una pratica senza fascicolo. Il colloquio era finito.

Chiavolini non perse tempo. Era già in piedi.

– Partenza immediata – disse. – Vi accompagneranno alla caserma della Milizia Ferroviaria, a Termini. Domattina primo treno.

Non ringraziò. Non spiegò. Voleva chiudere quella parentesi in fretta. Cesare aveva reso un servizio al Duce. Era bastato. Oltre non si andava. Cesare annuì. Seguì l’uomo che lo aspettava fuori. Roma restava alle spalle, con i suoi corridoi e i suoi silenzi organizzati. Lui tornava alle colline. Con una tessera come ringraziamento.

Non ci furono conseguenze visibili. Nessun arresto, nessun processo, nessuna dichiarazione. L’informazione fu archiviata per essere tirata fuori al momento opportuno. La malavita restò dov’era. Non era il problema, era lo strato di protezione. Cambiare quello avrebbe significato scoprire il meccanismo. Il sistema, alleggerito dell’attrito, tornò a regime. Come se nulla fosse accaduto. Come se fosse sempre andata così.


Cesare lasciò Roma all’alba, senza saluti e senza tracce. Alla caserma della Milizia Ferroviaria nessuno fece domande: un nome, un cenno, il primo treno verso nord. Seconda classe, come all’andata. Il vapore riempiva la pensilina e cancellava i contorni. Si sedette vicino al finestrino e guardò fuori, senza aprire nulla, senza leggere. Il convoglio risalì lento. Campagne ordinate, stazioni minori, l’Appennino che si stringeva attorno ai binari. Gallerie brevi, vallate scure, paesi che passavano come appunti non presi. Cesare seguiva il paesaggio con lo sguardo, lasciando che il movimento facesse il resto. Sapeva di aver rimesso ordine, ma non per giustizia. Per controllo. E sapeva che quella distinzione, ormai, non lo avrebbe più abbandonato. A Forlì scese senza fretta. Passò in Questura come previsto. Si presentò al Questore, disse il minimo indispensabile. Un viaggio. Un incarico. Nulla da riferire. L’altro annuì, sollevato di non dover chiedere.

Il giorno dopo riprese la SITA. Stesso orario, stesso mezzo. La tromba a pera annunciò la partenza. Sacchi della posta sul tetto, uomini con commissioni da sbrigare in città, qualcuno che già pensava a cosa riportare indietro. Cesare si sedette e lasciò che la strada seguisse il fiume. Terra del Sole, Castrocaro, la pianura che tornava a farsi familiare. Quando la corriera imboccò la piazza del paese, tutto era come prima. O quasi. Scese, aggiustò il cappotto, si avviò a piedi. Aveva rimesso le cose al loro posto, nel modo in cui gli era stato chiesto.

Rientrato in caserma, Cesare trovò la busta sulla scrivania. Nessun timbro vistoso, nessuna intestazione solenne. Solo il suo nome scritto dritto. Dentro c’era la tessera. Nuova. Perfetta. Partito Nazionale Fascista. Numero basso, come si conveniva a chi non l’aveva chiesta. La data già compilata. Nessuna firma da apporre. La prese in mano, la girò. Pensò a Roma, ai curidùr di ministeri. La infilò nel portafoglio, dietro ai documenti. Non davanti. Sarebbe stato eccessivo. Tornò a sistemare le sue cose come se nulla fosse cambiato. Perché, in fondo, nulla era cambiato davvero. Solo che adesso, anche quella, non era più una scelta. U s’fa quéll cu s’pò, l’impussébil u s’lasa stê…

Una replica a “Chi l’ha deciso?”

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