Cesare Montanari pedalava senza fretta, ma con una regolarità che gli veniva naturale. La strada appena battuta correva tra campi bassi e spogli, ancora umidi di freddo. La bicicletta sobbalzava sulle pietre, faceva il suo rumore secco, ma teneva. Era una buona bicicletta, robusta, come quelle che servono a chi non può permettersi di cambiarla. Veniva da Dovadola, Dvêdla, in Romagna, e questo, per lui, voleva dire molte cose. Voleva dire colline povere, terra magra, famiglie che avevano sempre lavorato a ovra, giornata dopo giornata, senza padroni fissi ma con la schiena sempre piegata. In casa Montanari nessuno aveva mai comandato niente, se non il proprio tempo, quando c’era. Suo padre andava dove serviva: campi, cantieri, boschi. La madre teneva insieme la casa come poteva. Nessuno si lamentava molto. Non era uso. A forza d’bati, u s’impara a fê i ciòd.
Fare il poliziotto, la guèrdia, per Cesare, era stato un modo per uscire da quella linea. Non per rinnegarla, ma per spostarla un poco più in alto. Una divisa voleva dire stipendio regolare, rispetto formale, una parola che pesava più di prima. Non era una scelta ideologica. Era concreta. Elevare la propria condizione, diceva lui, senza troppe frasi. A Dovadola certe idee giravano da tempo. Repubblicane, anticlericali, ma più che altro pratiche. Lo Stato non doveva essere un favore del Re, la legge non doveva cambiare a seconda di chi la applicava. Cesare quelle cose le aveva respirate prima ancora di capirle. Non era uno che parlava in piazza, ma quando ascoltava annuiva. E quando entrò nella Regia Polizia lo fece sapendo bene che non stava entrando “dalla parte del potere”, ma in una funzione. Tenere in ordine, far rispettare le regole.
La guerra lo aveva preso quasi subito. All’inizio servizi d’ordine, controlli, traduzioni. Poi la Polizia Militare. Un distaccamento dopo l’altro. Aveva imparato presto che il fronte non era solo fango e reticolati, ma anche carte, magazzini, uomini che sparivano, altri che tornavano cambiati. E in mezzo a tutto questo c’era bisogno di qualcuno che facesse domande senza urlare e senza voltarsi dall’altra parte. Aveva appena finito un’ispezione a un magazzino avanzato. Tutto in ordine, sulla carta. Qualche cassa malmessa, registri compilati in modo approssimativo. Niente che giustificasse un rapporto pesante. Cesare non aveva insistito. Aveva firmato, salutato, rimontato in sella. Ora tornava verso le baracche del comando, dove lo aspettava il colonnello Vittorio De Carli.
La strada piegava in lieve salita. Cesare rallentò, si alzò sui pedali per un tratto, poi tornò seduto. Le gambe erano abituate. A Dovadola si saliva sempre. Davanti a lui comparvero le baracche: legno grezzo, tetti bassi, fumo che usciva piano. Il comando non aveva nulla di solenne. Sembrava più un cantiere fermo che un luogo di decisione. Eppure, da lì, partivano ordini che facevano muovere uomini come pezzi. Pensò al colonnello. Piemontese, savoiardo nel modo di stare al mondo. Cesare lo aveva visto poche volte, ma quanto bastava. Parlava poco, ascoltava molto, non cercava confidenza e non faceva il padreterno. Uno che teneva la linea. Per uno come Cesare, venuto “da sotto”, era già un segnale chiaro: lì contava il lavoro, non da dove arrivavi.
Il distaccamento occupava una piega del terreno poco visibile dalla strada principale. Le baracche erano disposte senza un ordine evidente, come se fossero state appoggiate lì una alla volta, seguendo l’urgenza più che un progetto. Legno grezzo, porte che non chiudevano bene, finestre rattoppate con tela cerata. Intorno, fango quando pioveva e polvere quando tirava vento. Il fronte friulano non aveva nulla di epico: era una terra che si lasciava attraversare, ma senza concedere nulla. La vita del distaccamento scorreva per consuetudine. Sveglia, caffè annacquato, ordini letti a voce alta, uomini che partivano e altri che tornavano con lo stesso passo stanco. La Polizia Militare stava un poco discosta dalla truppa combattente. Non sparava quasi mai, ma guardava tutto. Carte, movimenti, carichi. E soprattutto uomini. Cesare aveva imparato che lì non serviva alzare la voce: bastava esserci, e ricordare che qualcuno teneva il conto. Gli ufficiali di passaggio li riconoscevi subito. Entravano nelle baracche come se fossero tende, non muri. Lasciavano ordini rapidi, spesso contraddittori, e se ne andavano. Il distaccamento restava. Con gli stessi uomini, le stesse stoviglie sbeccate, le stesse coperte umide. Era una macchina che non doveva brillare, ma funzionare.
Cesare attraversò il cortile interno evitando una pozzanghera che ormai aveva un nome, tanto stava lì da settimane. Due militari parlavano a bassa voce vicino a una cassa aperta. Si zittirono vedendolo passare, non per timore, ma per riflesso. Cesare salutò con un cenno e tirò dritto. Non gli interessava farsi notare. Gli interessava che sapessero che poteva notare. Scese dalla bicicletta, la appoggiò con cura al palo, controllò che non desse fastidio. Si sistemò il cappotto. La divisa era lisa, ma pulita. Cesare ci teneva. Non per vanità, ma perché sapeva bene da dove veniva e cosa gli era costato indossarla. Entrò. L’aria dentro era più calda, carica di fumo e di carta, si mise sull’attenti battendo i tacchi. Un attendente lo guardò e fece un cenno.
– Il colonnello l’aspetta.
Cesare annuì e avanzò lungo il corridoio stretto. Pensò che, comunque andasse, quello che stava per succedere non aveva a che fare con la strada fatta in bicicletta. Quella era solo la traiettoria. Il resto, se c’era, veniva adesso. Ascoltare. Forse parlare. E tenere la schiena dritta, come aveva sempre fatto.
Dietro la scrivania del colonnello, appesa alla parete, c’era la bandiera del reggimento: stoffa pesante, un po’ scolorita, tenuta dritta più per disciplina che per orgoglio. Accanto, il ritratto del Re osservava la stanza con uno sguardo fermo e distante, sempre uguale, qualunque cosa accadesse sotto. Cesare lo guardava sempre, quel ritratto, senza pensarci troppo. Non per rispetto né per sfida. Era lì, come la stufa o la carta militare: una presenza data, non negoziabile.
Il colonnello Vittorio De Carli occupava quello spazio con naturalezza. Cinquant’anni abbondanti, spalle larghe, baffi a manubrio, schiena ancora dritta. Il viso segnato più dalla disciplina che dall’età. Parlava con un italiano netto, senza inflessioni marcate, ma con quel ritmo asciutto che Cesare associava ai piemontesi di carriera. Savoiardo nel metodo, più che nelle parole. De Carli non girava molto per il distaccamento. Preferiva che le cose arrivassero a lui già sistemate. Quando usciva, lo faceva senza seguito e senza cerimonia. Salutava tutti allo stesso modo, dall’attendente al sottotenente. Non cercava confidenza e non umiliava. Stava al suo posto, e pretendeva che ciascuno stesse al proprio.
Cesare bussò e attese.
– Avanti.
Entrò. L’ufficio era spoglio: una scrivania, due sedie, una carta militare appesa al muro con linee che cambiavano colore di settimana in settimana. La stufa occupava un angolo, annerita dall’uso. Nessuna fotografia, nessun ricordo privato. Solo servizio.
– Vicebrigadiere Montanari – disse il colonnello, alzando appena lo sguardo.
– Signor colonnello.
– Si accomodi. In piedi va bene.
Cesare rimase dov’era. De Carli lo osservò un istante, come se stesse valutando non tanto l’uomo quanto la sua funzione.
– Qui non siamo al fronte vero e proprio – disse – ma tutto quello che passa dal fronte passa anche di qui. Se qualcosa si rompe, di solito, comincia da posti come questo. È chiaro?
– Sì, signor colonnello.
– Bene. Allora facciamo in modo che non si rompa.
Cesare annuì. Non c’era altro da aggiungere. Il colonnello De Carli restò dietro la scrivania, il fascicolo ancora chiuso davanti a sé. Guardava la carta militare appesa al muro, non Cesare, come se il punto fosse lì, tra una linea e l’altra.
– Hanno trovato morto un cappellano – disse infine – di un reggimento qui accanto.
Fece una pausa breve.
– Tocca a lei.
Cesare non rispose. Restò fermo, lo sguardo diritto. E tóca a mé, pensò. In romagnolo: E parchè? A n’móran tant, in sti dè. C’sa l’ha ed spesièl la mòrt d’un prétt? Ne muoiono tanti, di questi giorni. Cos’ha di speciale la morte di un prete? Dentro gli venne naturale chiederselo. Ma non si mosse. Un vicebrigadiere ascolta. Punto. Il colonnello aprì il fascicolo e scorse poche righe.
– Mi hanno già raccontato tutto – continuò – ed è proprio questo che non mi convince.
Alzò lo sguardo.
– Volantini socialisti, scritte anarchiche. Tutto pulito. Troppo pulito. Basta là.
De Carli si mosse intorno alla scrivania, prese una matita e la rigirò tra le dita.
– In guerra – disse – le cose vere sono disordinate. Fanno casino. Questa invece sembra messa in scena. Come se qualcuno avesse avuto fretta di dirci chi dobbiamo guardare. Veh.
Si fermò davanti a Cesare.
– E quando un delitto è sceneggiato, non serve solo a far fuori uno. Serve a portare chi indaga da una parte sola.
Cesare annuì appena, quasi senza volerlo. A lóra l’è quèst, a pinsé. Mìa e prétt. E módd. Non il prete. Il modo.
Il colonnello tornò a sedersi.
– Io non so ancora cosa c’è sotto – disse – ma so che puzza. E quando puzza, va guardato. È il mio dovere. E ora è anche il suo.
Cesare sentì quella parola come un colpo secco.
– Lei è romagnolo – aggiunse De Carli – e voi, da quelle parti, avete la testa dura. Quando una cosa non torna, continuate a rigirarla finché non viene fuori. A volte dà fastidio. A volte serve.
Fece un gesto vago con la mano.
– Per questo mando lei. Senza rumore. Guarda, ascolta, prende nota. Poi torna qui.
Cesare non rispose. Fece solo un cenno. Ho capito. A ò capì, pensò. Adesso basta fare finta.
– Una cosa ancora – disse il colonnello – non si faccia distrarre dal fatto che è un prete. Qui non giudichiamo le anime. Guardiamo i fatti. Basta là.
Cesare abbassò lo sguardo per un istante.
– Può andare.
Cesare fece il saluto ed uscì. Prese la bicicletta e si avviò verso il casermaggio senza accelerare. La strada correva tra campi bassi e fossi pieni d’acqua ferma. Pedalava con il ritmo che gli veniva naturale e lasciava scorrere i pensieri, ma senza insisterci. La domanda era sempre la stessa, tornava da sola: perché un prete. In mezzo a una guerra che macinava uomini a decine, la morte di un cappellano non avrebbe dovuto fermare nessuno.
Il casermaggio era poco fuori dal paese, una manciata di baracche tirate su in fretta, con l’ospedale da campo ricavato in un edificio basso, già consunto. Davanti c’era movimento continuo. Barelle che entravano, sacchi che uscivano, un medico che impartiva ordini senza alzare la voce. Nessuno sembrava avere tempo per soffermarsi su un morto in più. Cesare lasciò la bicicletta e entrò. L’odore lo investì subito: disinfettante, merda, sangue, umido. La morgue era una stanza lunga, spoglia, con un tavolaccio al centro. Intorno, per terra, altri corpi, allineati come oggetti in attesa di destinazione. Soldati come tanti, facce gonfie, mani ancora sporche di terra. In mezzo a loro, sul tavolo, al posto d’onore, c’era il cappellano. Si avvicinò. Il prete era stato pestato a sangue. Non c’erano ferite nette, ma lividi, gonfiori, segni di colpi ripetuti. Il volto irriconoscibile, le mani tumefatte. Non sembrava un’esecuzione. Sembrava una violenza insistita, quasi accanita. Qui non hanno avuto fretta di finire. Incióna prìs’cia, pensò. Un inserviente gli si avvicinò, asciugandosi le mani su un panno già sporco.
– Se ha finito, vicebrigadiere, noi dobbiamo procedere – disse – lo seppelliamo con gli altri. Oggi ne abbiamo parecchi.
– Con gli altri? – chiese Cesare.
– Certo – rispose l’uomo – mica possiamo fare una fossa per ciascuno. È un prete, sì, ma un morto è un morto. Meglio portarli via prima che il caldo faccia il resto.
Cesare annuì. Non c’era durezza, solo stanchezza. Qui la morte è un lavoro, pensò. E quando il lavoro si accumula, si sbriga. Uscì.
La chiesa era poco più di una baracca più grande delle altre, addossata al terreno come tutto il resto. La dominava una croce troppo grande, sproporzionata. Accanto, una madonna in gesso, il volto scheggiato, una mano rotta. Sulle pareti esterne, disegni fatti dai soldati: cuori storti, bandiere, scritte infantili. Tentativi maldestri di lasciare un segno prima di sparire. La sagrestia era dietro.
Cesare si fermò sulla soglia. La chiesa parlava di conforto. La sagrestia raccontava il resto. Il sangue era ovunque. Sul pavimento, sulle pareti, sul tavolo. Non schizzi casuali, ma macchie larghe, trascinate. Qui qualcuno ha voluto far vedere, pensò. Própi . Non era il disordine di una colluttazione. Era una scena. Le scritte verniciate gridavano più del necessario. Frasi grossolane, slogan politici messi lì in fretta. Volantini sparsi ovunque, buttati come a volerli far trovare subito. Socialisti, anarchici, tutto quello che serviva a indicare una direzione precisa. Troppo precisa. Cesare raccolse un foglio, lo guardò appena e lo lasciò cadere. Non gli interessava leggerlo. Gli interessava il fatto che fosse lì. Quando una cosa è spiegata così bene, pensò, di solito non è vera.
In fondo, quasi nascosta dietro una tenda sporca, c’era una porta più bassa delle altre. La aprì. Dentro, uno sgabuzzino stretto: un lettino da campo contro il muro, una coperta militare piegata male, una cassa usata come tavolo. Lì dormiva il cappellano. Non c’era sangue. Solo odore di chiuso e di fumo freddo. Un breviario aperto a metà, una candela consumata, una fotografia stropicciata infilata tra le pagine. Cesare non la toccò. Guardava e basta. Gli venne da pensare, senza cattiveria: ma sì, dai. In una carneficina come quella, a chi poteva davvero interessare la morte di un prete. Un morto in più, uno in meno. La guerra li pareggiava tutti. Poi qualcosa non tornò. Qui l’avevano tirato fuori. Qui l’avevano preso, prima. La violenza era cominciata altrove, ma il percorso passava da lì. Non era stato un caso. Non era stata una rissa. Alle sue spalle sentì passi decisi. Troppo decisi per quel posto.
– Vicebrigadiere!
La voce era secca, impostata. Cesare si voltò. Sulla soglia c’erano due ufficiali. Il primo, più alto, con il cappotto ben portato e il viso tirato, lo guardava come si guarda qualcuno che intralcia. L’altro, più giovane, teneva il mento un po’ troppo alto.
– Capitano Alberto Riva – disse il primo – questo è il tenente Moretti.
Cesare fece il saluto.
– Vicebrigadiere Montanari, Regia Polizia.
– Lo sappiamo – tagliò corto Riva – ed è proprio per questo che siamo qui.
Il capitano entrò nella stanza senza chiedere permesso, guardò attorno con un’espressione di fastidio.
– La situazione è chiara – disse – e non vedo perché perdere tempo. Un prete ammazzato da sovversivi. Succede. Soprattutto da queste parti.
Il tenente Moretti annuì, troppo in fretta.
– Gente che odia l’uniforme, la Chiesa, tutto quello che rappresentiamo – aggiunse – abbiamo già dei nomi. Testimonianze. Roba solida.
Cesare non rispose. Restò sull’attenti, lo sguardo neutro. Ma non disse nulla.
Riva si avvicinò di un passo.
– Lei è qui per prendere atto, non per fare filosofia – disse – il comando non ha bisogno di storie complicate. Ha bisogno di ordine.
– E di risultati – aggiunse Moretti – la truppa è già abbastanza nervosa.
Cesare sentì la parola come un colpo secco. Nervosa, sì. E ló dù i j’era pió di j’êter. E loro due lo erano più degli altri. Parlava la voce, parlavano i gesti.
– Vicebrigadiere – riprese Riva – le suggerisco di chiudere qui. Faccia il suo rapporto e lo mandi su. Non perda tempo in cose che non la riguardano.
Cesare non si mosse. Non rispose. Il silenzio si allungò quel tanto che bastava a farlo diventare scomodo.
– È chiaro? – insistette il capitano.
– Sì, signor capitano – disse Cesare, infine.
Riva sembrò rilassarsi appena. Moretti fece un mezzo sorriso che non arrivò agli occhi.
– Bene – disse il tenente – allora siamo d’accordo.
Uscirono così come erano entrati, lasciando dietro di sé l’odore di cuoio e di fretta. Cesare restò dov’era. Guardò di nuovo il lettino, la coperta, la fotografia nel breviario. La versione ufficiale era già pronta, confezionata, difesa con troppa energia. E quando una spiegazione ha bisogno di essere difesa prima ancora di essere messa in discussione, di solito è perché non regge da sola. Si raddrizzò. Ora non aveva prove. Solo una sensazione. Ma per uno come lui, cresciuto a diffidare delle cose troppo lisce, era più che sufficiente per non chiudere il caso.
Uscì dalla sagrestia e si fermò un momento all’aria aperta. Il sangue, lì dentro, sembrava più denso. Aveva bisogno di staccarsene, anche solo camminando. Si avviò verso il centro del casermaggio, lasciando che i passi lo portassero dove sapeva di trovare qualcuno che parlava senza troppi giri: l’ufficio del sottufficiale al dettaglio. La baracca del maresciallo Anselmo Piergentili era riconoscibile da lontano. Porta sempre aperta, un continuo entrare e uscire, odore di carta e di cibo stantio. Piergentili era piegato su un registro, la schiena curva, la penna che si muoveva lenta. Alzò gli occhi e sospirò.
– Vicebrigadiere… una brutta faccenda, eh.
Non era una formula. Era detto con convinzione.
– Don Bartolini – continuò subito – quello sì che era un prete come si deve. Sempre in mezzo ai feriti. Non faceva distinzione. Teneva la mano a chi stava andando, consolava quelli che urlavano. E poi scriveva. Lettere su lettere. Qui ce ne sono tanti che non sanno mettere due parole in fila. Scosse la testa.
– Una vergogna. Una vergogna vera. Che certi disfattisti senza Dio abbiano fatto una cosa del genere.
Cesare ascoltava senza interrompere. Piergentili chiuse il registro con un colpo secco.
– Avete mangiato? – chiese – Se no, venite in mensa. Anche se… – fece una smorfia – oggi non promette niente di buono.
Camminarono insieme verso la baracca della mensa. Il maresciallo parlava volentieri, con quell’italiano un po’ cantilenato, concreto, da uomo abituato a fare da cuscinetto tra ordini e fame.
– Qui va così – diceva – a volte si mangia decente, a volte no. Dipende tutto dagli approvvigionamenti. Quando arrivano i carri giusti, si tira avanti. Quando no… pazienza.
La mensa li accolse con un odore acre. Una brodaglia fumante nelle gavette, acqua sporca più che minestra. Pane duro. Nessuna carne. Cesare guardò il contenuto del piatto e non commentò. Mangiare era una funzione, non una scelta. Si sedettero. Il cucchiaio affondava in quel liquido senza consistenza.
– Oggi è giornata storta – disse Piergentili – altre volte va un po’ meglio. Non sempre, eh. Ma capita.
Cesare assaggiò. Il sapore era indefinibile, grasso rancido e acqua calda. La góla la ha e bús strèt mo la pò magnè chèsa e tètt, pensò. La gola ha il buco stretto ma può mangiare casa e tetto. E quando è così, uno si ricorda bene chi comanda.
– In altri reparti? – chiese, senza alzare lo sguardo.
– Dipende – rispose il maresciallo – ce ne sono messi peggio di noi. E altri che, chissà come, ogni tanto tirano fuori qualcosa in più. Fortuna, dicono.
Fece una pausa, poi aggiunse:
– O qualcuno che si muove bene.
La frase scivolò via come se non avesse peso. Cesare continuò a mangiare, lentamente. Qualcuno si muove, pensò. Quicadón. Non fece domande. Non era il momento. Intorno a loro il pranzo proseguiva uguale per tutti. Cucchiai che battevano sul metallo, facce chiuse, nessuna lamentela. La fame, quando è costante, diventa silenziosa. Piergentili tornò a parlare di don Bartolini. Di come sapeva stare con gli uomini senza fare prediche. Cesare ascoltava e intanto registrava altro: il cibo pessimo, le parole dette a metà, quel “dipende dagli approvvigionamenti” ripetuto più volte. Il pranzo non finì davvero. Si spense. I due restarono seduti ancora un po’, con la brodaglia davanti, mentre il rumore della mensa calava. Cesare non aveva ancora niente in mano. Ma qualcosa, piano, aveva cominciato a non tornare.
Cesare si alzò con la gamella in mano e fece per avviarsi verso il bidone degli scarti. Aveva fatto pochi passi quando sentì una presa secca sulla giacca, all’altezza del braccio.
– Oh. ‘spetta.
La voce era bassa, sicura. Cesare si voltò. L’altro lo stava già guardando come se lo avesse rimesso a fuoco da un pezzo.
– Montanari Cesare – disse – di Dovadola. E fiòl d’e sbrazȧnt. Il figlio del bracciante.
Cesare lo osservò meglio. La mascella pronunciata, gli occhi scuri, quell’aria sempre un po’ di sfida.
– Mussolini Benito – rispose – di Dovia di Predappio. E fiòl d’e fàbar. Il figlio del fabbro.
Mussolini sorrise, compiaciuto.
– Vedi? Da noi si fa così. Prima il cognome, poi il nome. E se non dici chi era il padre, manca sempre qualcosa.
Si sedettero a un tavolo quasi vuoto. La mensa si stava svuotando, il rumore dei cucchiai era ormai lontano.
– Faenza – disse Mussolini – i Salesiani. Un anno insieme. A me è bastato.
– A giudicare da come è finita, sì – rispose Cesare.
Mussolini fece un mezzo sorriso.
– Parlavo troppo. E uno di quelli non stava mai zitto. A un certo punto è uscito anche un coltello. – fece spallucce – Succede, quando nessuno vuole stare al suo posto.
Cesare non commentò. Quando uno non sa stare dove deve, vuole stare sopra gli altri, pensò, ma se lo tenne per sé.
– Ti ricordi Bosi? – continuò Mussolini – A t’arcurdêt? Quello che faceva il devoto.
– Me lo ricordo.
– E Tassinari. Sempre pronto a comandare.
– Anche lui.
Mussolini fece un gesto come a dire che il conto era chiuso.
– Io invece – disse, sistemandosi il cappotto in modo che i gradi si vedessero – ho fatto strada. Studi, politica, giornali. L’Avanti. Dirigerlo non è poco.
– No – disse Cesare – non lo è.
Mussolini lo fissò un istante, cercando conferma. Poi annuì.
– E adesso questa storia – aggiunse, abbassando la voce – dell’ammazzamento di don Bartolini. È sulla bocca di tutti.
Cesare restò in silenzio.
– Un prete è un prete – continuò Mussolini – ma quello era anche un galantuomo. Un galantòmm. Stava coi feriti, coi moribondi. Non faceva differenze.
La frase non suonava come una posa.
– Io sono socialista – riprese – ma quando una cosa viene spiegata troppo bene, tutta insieme, non mi piace. – fece un mezzo sorriso – Montanari, non fidarti mai della pappa già fatta.
Cesare lo guardò.
– Non mi fido quasi mai – disse.
Mussolini accennò una risata breve.
– Lo so. È per quello che ti ho fermato.
Un attendente lo chiamò da lontano. Mussolini si alzò, si ricompose, tornò caporale fino in fondo.
– Devo andare – disse – ma stai attento. In prima linea almeno sai chi hai davanti. È nelle retrovie che il colpo arriva da dove non te lo aspetti.
Gli diede una pacca rapida sulla manica e si allontanò. Cesare restò seduto ancora un momento. Guardò la gamella, la ripose. Poi si alzò anche lui. Il pranzo era finito, ma qualcosa, ormai, aveva preso una direzione precisa.
Il maresciallo Piergentili lo accompagnò verso la canonica, sulla porta i due si congedarono con un cenno stanco. Il rumore degli scarponi del sottufficiale si allontanò sul fango del piazzale, fino a perdersi tra le voci del casermaggio. Rimase solo. Sapeva già come sarebbe finita. In quelle valli friulane, nel 1916, la morte era un fatto ordinario. Bastava un secchio d’acqua gelata per lavare il pavimento, una passata di calce per coprire le macchie di sangue sulla parete della sagrestia, e la faccenda era chiusa. Il resto lo faceva il tempo.
Si mosse lentamente tra i pochi arredi. Guardava senza fretta, come faceva sempre. Non cercava prove nel senso stretto del termine; cercava stonature. Don Bartolini non era un parroco di paese, uno che annotava battesimi e feste patronali. Era un cappellano militare, uno che viveva tra i feriti e i morenti. Sul tavolo trovò il taccuino. Lo aprì. Era un inventario di carne umana. Nomi scritti a matita, spesso storti, numeri di matricola, indirizzi di famiglie sparse in mezza Italia. Accanto, brevi annotazioni: morto per ferite, disperso sul Carso, visto cadere nel reticolato. Ogni tanto una nota più lunga, quasi un promemoria: moglie giovane a Treviso, tre figli piccoli. Cesare chiuse per un momento gli occhi. Era la contabilità dell’ecatombe, nuda e senza retorica.
Si spostò verso il fondo della sagrestia, dove erano stati ammucchiati gli effetti personali del cappellano. La divisa era appesa a un chiodo: giubba e pantaloni grigioverdi, infangati all’orlo. Sul petto, cucita all’altezza del cuore, la croce di panno rosso, ormai scolorita. Dal colletto spuntava ancora il collarino bianco, rigido, quasi fuori posto in mezzo a quell’uniforme da trincea. Non c’erano stellette sul bavero. Cesare lo notò senza pensarci: non era un ufficiale come gli altri, eppure stava in mezzo agli uomini più di molti ufficiali veri. Sul tavolo c’era anche il berretto, con la croce rossa frontale, e accanto la borsa di pelle a tracolla. Cesare la aprì. Dentro c’era l’occorrente per l’estrema unzione: il breviario, un fazzoletto, un barattolino cilindrico che conteneva il recipiente dell’olio sacro. Tutto in ordine, come se don Bartolini avesse sempre avuto cura delle sue cose.
Cesare prese in mano la custodia di pelle. Era consumata sul fondo, più di quanto si sarebbe aspettato. La rigirò. Con un gesto lento, quasi distratto, infilò le dita all’interno del comparto per l’estrema unzione. Sentì qualcosa di diverso dal legno e dal metallo. Un foglietto. Lo estrasse. Era carta velina, ripiegata più volte. La aprì con attenzione. Non era una preghiera. Era un calendario ferroviario scritto a mano: orari di arrivo, sigle di convogli, indicazioni di binari di scarico. Riferimenti alla stazione di smistamento più vicina, quella che riforniva tutto il settore. Lesse due volte. Non per capire le parole, ma per sentirne il peso. Gli tornò in mente la brodaglia della mensa, il pane che sapeva di gesso, le lamentele ascoltate senza darci troppo peso. Gli tornò in mente anche l’incontro appena avuto, le frasi buttate lì come per caso. Dipende dagli approvvigionamenti, l’aveva det e marescial, aveva detto il maresciallo.
Il fastidio che provò era quello che conosceva bene. Se i treni arrivavano con quella regolarità quasi matematica, perché nelle gavette finiva sempre il peggio? Perché un cappellano, che avrebbe dovuto occuparsi di anime e di lettere alle famiglie, teneva traccia dei movimenti dei vagoni? Cesare rimise per un attimo il foglio dentro la custodia e guardò attorno. La stanza era stata ripulita in fretta. Qualcuno aveva avuto paura. Aveva tolto quello che era evidente, lasciando ciò che sembrava insignificante. Una scatoletta di sigari, una custodia da prete. Nessuno aveva pensato che lì dentro potesse esserci altro. Riprese il biglietto e lo piegò con la stessa cura con cui lo aveva trovato. Non sentiva rabbia, né trionfo. Solo una certezza che si faceva strada, lenta e precisa. Don Bartolini non stava contando i peccati. Stava contando i vagoni.
Rimase ancora un momento nella sagrestia. Poi rimise tutto a posto, con la stessa attenzione con cui aveva trovato le cose, come se nulla fosse successo. Tutto tornò dov’era, tranne il bigliettino. Quello lo ripiegò con cura e lo infilò nella tasca interna della giacca, contro il petto. Non era il momento di dire o di fare altro. Ma l’anomalia, ormai, aveva preso posto nella sua testa. E sapeva che da lì non se ne sarebbe andata.
Uscì dalla sagrestia con un passo che non ammetteva ripensamenti. Fuori l’aria era già più fredda. Controllò il cielo, poi infilò la mano nella tasca interna della giacca. Il bigliettino era lì. Lo lasciò dov’era. Riprese la bicicletta. Prima di partire controllò il lasciapassare, lo spiegò, lo ripiegò con cura. Tutto in ordine. Si mise a pedalare verso il paese capolinea della ferrovia, qualche decina di chilometri più a valle. La strada era lunga e monotona, buona per pensare. Dentro la testa, i pezzi cominciavano a stare insieme. Le lamentele soffocate dei soldati. Don Bartolini che ascoltava e annotava. Gli orari dei treni, i binari di scarico. Una spiegazione già pronta, troppo rumorosa, buona per chiudere tutto per sempre. Accaparramento, si disse. E una storia che doveva finire lì. Ora sapeva cosa stava guardando. Gli mancava solo il nome di chi ci aveva messo le mani.
Arrivò al paese che era già buio. Poche luci, finestre basse, odore di fumo umido che ristagnava tra le case. La stazione di polizia era un edificio modesto, una stanza sola affacciata sulla strada. Bussò. Gli aprì un uomo che aveva cinquant’anni, ma ne portava addosso il doppio: baffi grigi, schiena un po’ curva, lo sguardo di chi ha passato la vita ad aspettare che succedesse qualcosa, solo per scoprire che quel qualcosa era una guerra.
– Un altro poliziotto – disse, dopo aver guardato il documento – proprio adesso.
Era il maresciallo Giovanni Bressan. Qui c’era solo lui. E si vedeva. Poi sospirò.
– Stavo per mangiare.
– Ho già mangiato – disse Cesare.
Il maresciallo lo squadrò un attimo.
– Sì, come no. Venite dentro. A stomaco vuoto non si ragiona. E poi… – accennò alla cucina – si divide quel che c’è.
Cenarono insieme, in silenzio per un po’. Poi il maresciallo parlò del prete.
– Una brutta cosa – disse – Un prete è sempre un prete. E quello lì… dicevano fosse un santo.
Non c’era rabbia, solo dispiacere. Cesare ascoltò senza commentare.
Dormirono poche ore. All’alba erano già fuori. Andarono all’osteria del paese, l’unico posto aperto a quell’ora. Dentro c’erano solo vecchi, seduti vicini alla stufa. Parlottavano piano.
– Bon dì – disse il maresciallo.
– Bon dì – risposero in coro.
Cesare fece qualche domanda. Camion, movimenti strani. I vecchi scossero la testa.
– Nô o sin simpri ca – disse uno – no si va in giro.
– I camion passin – fece un altro – ma lontan.
Stavano per andarsene quando un bambino, seduto su uno sgabello con i piedi che non toccavano terra, parlò.
– I camion a fasin il zîr strani.
Il maresciallo sorrise.
– Toni – disse – ti sei svegliato presto oggi. Come stanno i nonni?
Il bambino fece spallucce.
– A stan come a puedin.
Il maresciallo annuì. Sapeva. Il padre di Toni era partito tra i primi, e non era più tornato. Il bambino viveva con i nonni e due fratellini.
– Spiegami bene – disse – che strada fanno questi camion.
Toni parlava solo in furlan, rapido, sicuro. Indicava con le mani.
– No tornin drits – disse – a van par i cjamps. Passin di là, daûr dal bosc, po’ rientrin al camp.
Cesare non capiva ogni parola, ma capiva il senso. Guardò il maresciallo.
– Dice che fanno una deviazione – tradusse quello – dietro i campi. Sempre la stessa.
– Sempre? – chiese Cesare.
Toni annuì deciso.
– Simpri.
Cesare ringraziò il bambino con un cenno. Non fece altre domande. La strada, adesso, non era più solo un’idea. Aveva un percorso, e qualcuno che lo percorreva con regolarità. E lui sapeva già dove avrebbe dovuto guardare dopo. Partirono subito in bicicletta. Il maresciallo Bressan davanti, Cesare poco dietro. La strada indicata dal bambino correva fuori dalle carte ufficiali: sterrata, stretta, infilata tra campi bassi e fossi. Non parlarono. Il rumore delle ruote bastava.
La cascina comparve oltre una curva, isolata. Da lontano sembrava disabitata: muri scrostati, tetto basso, nessun segno di vita. Ma avvicinandosi Cesare rallentò. Il piazzale era pulito, battuto di recente. Nessuna erba alta. Le finestre non erano spalancate come nelle case vuote, ma chiuse con tavole inchiodate, messe dritte, con criterio. Non era incuria. Era cautela. Scesero di sella e fecero il giro dell’edificio. Cesare allungò la mano verso la porta principale. Prima che potesse toccarla, la porta si aprì dall’interno. Il maresciallo Anselmo Piergentili era sulla soglia. Aveva il volto scomposto, gli occhi lucidi, le mani che tremavano senza riuscire a stare ferme. Per un istante restò a fissarli come se non li vedesse davvero.
– Lo sapevo – disse poi, di colpo – lo sapevo che sareste arrivati.
La voce gli uscì troppo alta, spezzata.
– Quando vi ho visto l’altro giorno, Montanari… ho capito subito che era finita. Ho provato a far finta di niente, a tenervi d’occhio. Vi ho visto prendere la strada della ferrovia, non tornare al comando. Allora mi è preso il panico.
Si fece da parte, lasciandoli entrare.
– Ho pensato di venire qui, spostare la roba, far sparire tutto. Ma non ce l’ho fatta. E non ho avuto il coraggio di dirlo a loro.
Dentro la cascina l’aria era fredda e asciutta. La stanza grande era piena di casse e sacchi ordinati con cura. Cesare aprì la prima cassa senza dire una parola. Formaggi interi. Lardo avvolto nella carta. Sacchi di gallette. Bottiglie di acquavite. Scatole di carne in conserva, zucchero, caffè vero. Non cicoria. Non surrogati. La razione che mancava alle truppe era lì. Non una distrazione, non un errore. Un sistema. Giovanni Bressan si tolse il berretto e restò a guardare le casse aperte. Per un attimo non disse nulla. Poi sbottò, senza alzare la voce, in furlan stretto:
– Cheste robe no la viôt di mês – disse – e nô o mangjin sbobbe.
Si passò una mano sul volto, come se improvvisamente avesse freddo.
– Da mesi – aggiunse, tornando all’italiano – e intanto noi a raschiare il fondo della gavetta.
Piergentili scoppiò.
– Per forza! – gridò – perché loro se la vendevano! Riva e Moretti! Io dovevo solo deviare una parte, capite? All’inizio poco: condimento, formaggio. Roba che sparisce sempre. Poi hanno voluto di più. Sempre di più.
Cominciò a camminare avanti e indietro, come un animale in gabbia.
– Mi minacciavano. “Prima linea”, dicevano. A cinquant’anni. Quanto pensate che sarei durato? Una settimana? Due? Io non sono un eroe!
Si fermò di colpo, guardò Cesare.
– Ma don Bartolini sì che lo era.
La voce gli si ruppe.
– Lui ascoltava i soldati. Le lamentele, la fame. Non accusava, no. Contava. Segnava. Guardava gli arrivi dei treni. Ha capito che qualcosa non tornava e li ha affrontati. È venuto da me, prima. Mi ha detto: “Anselmo, qui manca roba. E non è per caso”.
Si portò le mani alla testa.
– Io ho avuto paura. Non l’ho fermato. E loro due mi hanno portato da lui.
L’esplosione arrivò tutta insieme.
– Sono stati loro! – urlò – Io non l’ho toccato! L’hanno pestato! Doveva essere solo una ramanzina, capite? Solo per farlo stare zitto. Poi si sono fatti prendere la mano. Uno colpiva, l’altro non lo fermava. E quando era per terra… non si sono fermati.
Il silenzio cadde pesante. Ora tutto tornava. Le annotazioni, gli orari, la messinscena politica. Il delitto non era nato dall’odio ideologico, ma dalla paura di essere scoperti. Il resto era stato solo copertura.
Piergentili crollò su una sedia, improvvisamente vuoto.
– Io volevo solo campare – disse piano – e invece…
Cesare lo guardò senza dire nulla. Non c’era più spazio per giudizi o frasi definitive. Solo per mettere ordine.
– Adesso si fa l’inventario – disse – tutto. Casse, sacchi, bottiglie. Niente deve restare fuori.
Bressan annuì subito, come se aspettasse solo quello. Piergentili non obiettò. Si muoveva in modo meccanico, come se il corpo avesse deciso al posto suo. Aiutò ad aprire le casse, a contare, a segnare. Formaggio, lardo, gallette, zucchero, caffè, acquavite. La razione intera di uomini che, al campo, continuavano a mangiare sbobba. Quando ebbero finito, Cesare richiuse l’ultima cassa.
– Torniamo al campo – disse a Piergentili – e organizziamo il trasporto. Questa roba deve rientrare nei magazzini ufficiali. Subito. Andém!
Piergentili annuì. Non protestò. Non chiese nulla. Salì in bicicletta senza guardare indietro.
– Mi fermo io – disse – sto di guardia. Qui non entra nessuno.
Bressan restò sulla soglia della cascina, il fucile a tracolla, lo sguardo fisso sul piazzale. Cesare si voltò un’ultima volta verso l’edificio. Pedalando verso il campo, sentì che ora la faccenda aveva preso una direzione precisa. Non era ancora finita, ma non poteva più essere nascosta, né sepolta sotto una mano di calce. Adesso c’erano conti da rendere. E, finalmente, qualcuno li stava facendo.
Il giorno dopo Cesare si presentò al comando di buon’ora. Il rapporto era sotto il braccio, sottile, ordinato. Entrò nell’ufficio del colonnello Vittorio De Carli e fece il saluto.
– Restate pure in piedi – disse il colonnello – così non perdiamo tempo.
Cesare porse la relazione senza aggiungere altro. De Carli la prese, si sedette e iniziò a leggere. Lo fece con attenzione, senza fretta, come se stesse verificando non solo i fatti, ma la loro tenuta. Ogni tanto tornava indietro, rileggeva una riga, poi proseguiva. Quando arrivò alla fine, richiuse il fascicolo e lo appoggiò sulla scrivania.
– Bene – disse – vediamo se siamo d’accordo.
Alzò lo sguardo.
– Sottrazione sistematica di viveri destinati al fronte. Condimenti, formaggi, gallette, generi di conforto. Accantonati in un deposito fuori mano e rivenduti tramite mercato nero. Responsabilità dirette del capitano Alberto Riva e del tenente Guido Moretti. Complicità del maresciallo al vettovagliamento Anselmo Piergentili. È corretto?
– Sì, signor colonnello.
– Don Bartolini se ne accorge. Non denuncia, ma controlla. Segna. Tiene il conto dei treni e degli scarichi. Quando affronta i due ufficiali, la cosa degenera. Lo picchiano a morte. Poi mettono in scena una spiegazione politica per chiudere tutto in fretta.
– Sissignore.
De Carli annuì.
– Il deposito viene individuato. I viveri recuperati. Fine della parte materiale.
Si alzò dalla sedia.
– Adesso – disse – voglio tutto.
– Tutto, signor colonnello?
– Tutto. – scandì – Relazione, il foglietto di don Bartolini, note vostre, biglietti, qualunque carta sia passata per le vostre mani. Non deve restare in giro nemmeno una riga.
Cesare aprì la cartella ed estrasse ogni foglio. Li depose sul tavolo uno a uno. De Carli li raccolse senza leggerli di nuovo, si avvicinò alla stufa e aprì lo sportello. Il fuoco era vivo. Gettò dentro le carte con calma, lasciando che bruciassero fino in fondo. Richiuse.
– Rendere pubblica questa storia – disse – servirebbe solo a dire ai soldati che mentre muoiono qualcuno mangia meglio di loro. Non posso permettermelo.
Tornò alla scrivania.
– Ora veniamo alle conseguenze. Riva e Moretti li affronto io. – disse – Non voi, Montanari. Un vicebrigadiere non interroga un capitano né un tenente. Li convoco, li ascolto. Se saranno convincenti… – fece una pausa – molto più che convincenti… allora vedremo. Ma dubito che riusciranno a esserlo.
Il tono non era minaccioso. Era definitivo.
– Andrà così: trasferimento immediato in prima linea. Settore avanzato. – accennò un sorriso secco – È una carneficina, lo sappiamo tutti. Chi lo sa chi sarà il prossimo…
Cesare restò fermo.
– Quanto a Piergentili – riprese il colonnello – ha fatto tutto questo per evitare il fronte. E invece ci andrà anche lui. E ci resterà. Lo sa Iddio quanto.
Solo allora De Carli tornò a guardare Cesare.
– Del maresciallo Bressan – disse – quello del paese. Ci si può fidare?
Cesare non rispose subito.
– Sì, signor colonnello.
– Perché?
– Mandare gli altri al fronte potrebbe essere giustizia. Per lui no. Sarebbe solo un errore.
Il colonnello fissò Cesare a lungo, serrando gli occhi come per metterlo a fuoco. Poi annuì appena.
– Resterà dov’è – disse – finché farà il suo lavoro.
– Come voi. Avete fatto il vostro dovere, Montanari. Ora tocca a me fare il mio. Non è pulito. Ma tiene in piedi la baracca.
Cesare annuì.
– Quello che è successo qui dentro – aggiunse il colonnello – non esce da questa stanza. Né oggi né domani. È chiaro?
– Sì, signor colonnello.
– Potete andare.
Cesare fece il saluto ed uscì. Alle sue spalle, la stufa continuava a bruciare. In silenzio. Come la guerra, quando decide per conto suo.
Li convocarono nel pomeriggio, senza clamore. Un attendente percorse il corridoio, bussò alle porte giuste, pronunciò i nomi con voce neutra. Capitano Riva. Tenente Moretti. Maresciallo Piergentili. Nessuno chiese spiegazioni. Cesare li vide arrivare uno alla volta nel cortile del comando. Riva teneva il mento alto, come se la postura potesse ancora servire a qualcosa. Moretti parlava troppo, gesticolava, cercava sponde che non c’erano. Piergentili camminava rigido, con lo sguardo fisso davanti a sé, come chi ha già capito che non resta nulla da contrattare. Scomparvero nell’ufficio del colonnello. La porta si chiuse. Non uscì nessun rumore. Nessuna scena. Nessuna alzata di voce. Quando, più tardi, riapparvero, avevano tutti la stessa espressione: non di colpa, ma di spostamento. Come uomini già mentalmente in viaggio.
La sera stessa circolò la voce del trasferimento. Prima linea. Settore avanzato. Nessuna motivazione ufficiale. Solo ordini scritti, asciutti. La guerra aveva trovato il modo di assorbire tutto senza lasciare tracce. Cesare li osservò salire sul camion. Non provò soddisfazione. Nemmeno sollievo. Pensò a don Bartolini, alla sua grafia minuta, alle madri che non avrebbero mai letto quelle lettere. Pensò ai sacchi di farina rientrati nei magazzini, al lardo redistribuito, a qualche gavetta che, per un po’, avrebbe avuto un sapore meno amaro. Era questo, si disse, il massimo che si poteva ottenere. Non giustizia. Un riequilibrio momentaneo. Una correzione silenziosa, destinata a durare quanto dura una tregua non dichiarata.
Si voltò verso le baracche, verso la bicicletta appoggiata al muro. Il lavoro non era finito, ma quel capitolo sì. La guerra avrebbe continuato a macinare uomini, colpevoli e innocenti insieme. Lui avrebbe continuato a fare il suo mestiere, tenendo gli occhi aperti e la bocca chiusa. Và pian, fa prèst. Vai piano, fai presto. Pedalando via, pensò che non era stata l’ideologia a uccidere il prete, né la fede, né la politica. Tutte le solite cose per cui si uccide. Era stata la paura di essere scoperti.


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