Peccati non smaltiti
Il gusto della colpa
Luci basse, tappeto che si arriccia, foto storte sul mobile dell’ingresso. Il corridoio di casa. Il luogo dei passaggi, delle partenze. Il luogo dei ripensamenti.
Io sono qui. Ottantadue anni, due bypass, quattro mogli, sei gatti, una lunga teoria di anniversari mancati, innumerevoli peccati… e lui. L’ospite indesiderato. Il mostro. Il cancro.
Si sfiora il petto con due dita, come a misurare il battito, poi guarda intorno con finto distacco
Dicono che certe persone se lo vanno a cercare. Troppo vino, troppi piaceri, troppi eccessi… e lui arriva, puntuale, a chiedere il conto. Può darsi. Ma io credo in Dio, non nel medioevo. Il cancro è venuto lo stesso, con o senza peccati. Quindi tanto vale averli collezionati, i peccati migliori. Aspetto il mio turno.
Vado in clinica. Non per il cancro, no. Per la coscienza. Lo chiamano trattamento di smaltimento etico. Un bel ciclo di lavaggio interiore, ti svuotano i peccati, ti lucidano l’anima. Si esce leggeri, pronti per il… viaggio.
Sorride. Apre il cassetto del mobile. Eccole lì: le cartelle cliniche, le analisi, il foglio per la procedura.
A ottantadue, il cancro non è più IL problema. È l’anima che pesa. Tutta quella roba appiccicata dentro: rimorsi, tentazioni, il retrogusto dei piaceri proibiti. Funziona così: ti distendono, qualche flebo, una bella centrifuga morale, e via. Ti tirano a lucido, come un vecchio mobile. Rimani integro, pulito, asettico. Pronto. Pronto a cosa? A morire? A evaporare, più che altro.
Si veste piano, con gesti lenti. Giacca, cappotto, cappello… elegante, quasi da funerale, tanto per essere coerenti.
Che bella parola: puro. Svuotato come un bicchiere dopo una notte lunga.
Sorride amaro, fa il gesto di svuotare un bicchiere immaginario, lo osserva in trasparenza
Mi considero fortunato. Dico sul serio. Non capita a tutti di poterci arrivare preparati. A me sì. Mi hanno dato qualche settimana, forse meno. Giusto il tempo di provvedere. C’è gente che muore di colpo, bam! Un infarto al bar, un camion che sbuca alla rotonda, uno scivolone nella doccia e via, partono senza nemmeno salutare… e senza nemmeno smaltire il carico.
Io invece… ho avuto modo di mettermi in fila. Di alleggerire. Di ripulire. Loro la chiamano così: pulizia etica. Smaltimento dei peccati. Un trattamento igienico dell’anima, per non presentarsi nell’aldilà con la coscienza sporca come un pavimento di cucina a fine serata.
Si stringe nelle spalle, finge convinzione, poi abbassa lo sguardo dubbioso
Magari è questo che non ti dicono. Che ripulire la coscienza non è come lavare una camicia. Non è che strizzi, stendi e via, resta il tessuto. Qui, a furia di smacchiare, rischi che si sfilacci tutto.
E poi chi sei? Senza peccati, senza errori, senza quelle piccole infrazioni che fanno curriculum… Chi sei? Un foglio bianco? Una lavagna pulita? O peggio… uno di quei soprammobili che trovi nelle case perfette, quelli senza un graffio, senza una crepa, che ti fanno venire tanta voglia di romperli…
Io non voglio essere quello. Un soprammobile asettico, in saldo. Preferisco tenermi le mie crepe. I miei difetti. I miei peccati appiccicati addosso come una buona bottiglia bevuta di nascosto.
Si tocca le tempie o una cicatrice vera o immaginaria, la accarezza con orgoglio
Dio benedica la vite. Rosso corposo, bianco ghiacciato, bollicine che salgono come promesse.
Ohh. Ricordo un Vermentino ghiacciato, bevuto in terrazza con Anna… No, aspetta, o era Carla? Poco importa, quel vino sapeva di tramonto, pelle salata, salsedine nei capelli e mani che si cercavano sotto il tavolo.
Chiude gli occhi un istante, si abbandona al ricordo, come assaporando qualcosa di distante
Se me lo smaltiscono, che succede? Dimentico il sapore? Dimentico le mani intrecciate, i sorrisi rubati, il bicchiere che traballa tra risate e baci? Naaah! È giusto smaltire. Così almeno, via i sensi di colpa.
Ma poi…
E Sofia? Trent’anni meno di me, occhi verdi e la risata più indecente del pianeta. Un ristorante sul mare, gamberi rossi, due bottiglie di Fiano. Il peccato che scivola tra le pieghe della tovaglia, tra i capelli scompigliati, le labbra umide.
Dicono: riparti puro. Ma se perdo il ricordo di quella cena, cosa resta? Il conto? La ricevuta fiscale? No, grazie. Razionalizza… Meglio smaltire, mi ripeto. Così almeno si arriva in ordine, come dicono qui. Quando affiora Marta.
Capodanno in montagna, Prosecco che sa di conquiste, occhi neri che sfidano le regole. E quante regole abbiamo infranto, quella sera… Non solo le nostre. Il marito di lei, la moglie mia… gente che ha pianto, che ha urlato, che si è sbattuta la porta alle spalle.
Le crepe, le schegge, gli strascichi. Ci ho pensato, sai? A ripulirmi anche da quello. Dall’egoismo, dalla leggerezza, dai graffi che ho lasciato sulla pelle altrui.
E chissenefrega! Almeno io ho vissuto. Le ferite si rimarginano, i lividi scoloriscono, e pure le crepe… se ben gestite, diventano marchi di bellezza. Come quei vasi giapponesi, no? Kintsugi li chiamano. Si rompono, li riparano con l’oro. Più belli di prima, più preziosi, più veri.
Io sono uno di quelli. Crepato, sì. Ma con le cicatrici dorate. Tutto questo finirà nello scarico della clinica?
Guarda il pavimento, alza un sopracciglio, come se vedesse lo scarico lì, sotto di lui
Dicono che si esce leggeri, senza più il peso addosso. Ma io quel peso lo voglio. Quel peso è la vita. E poi c’è il peccato più grande: il gusto del proibito.
Fa un mezzo sorriso complice, si passa la lingua sulle labbra, gusto immaginario
Il bicchiere di troppo, la fetta di torta nascosta, la mano infilata sotto la camicia altrui, le carezze clandestine. Piccoli crimini contro la monotonia. E le osterie… mio Dio, le osterie. Pane caldo, vino che macchia i bicchieri, le chiacchiere scomposte, la musica stonata, gli sguardi che si incrociano, le notti che iniziano senza sapere dove finiranno. Toglietemi tutto, ma non il ricordo di quelle sere.
Ho visto gli altri in fila… Volti scoloriti, occhi vuoti. Escono dal trattamento come bianchi d’uovo montati: leggeri, innocui, insipidi. Io no. Io non ci casco.
No. Avanti, entra, tanto poi non ti ricordi più nulla. Devo decidere. Riparto puro? Vuoto come un calice lavato male?
Si toglie il cappello, si sfila il cappotto, lo appende all’attaccapanni, poi la giacca.
Ho scelto! Ho scelto di tenermeli tutti, i peccati migliori. Quelli con retrogusto di fragole e pelle nuda. Quelli con mani che scivolano sotto il tavolo. Quelli con il vino che sa di rivoluzione e la bocca che sa di notte. Non rinuncio a tutto questo.
Prende il telefono, sfoglia i contatti.
Monica. Un compleanno, settantacinque primavere, la sfacciataggine di baciarmi come se ne avessi venti. Il dolce al cioccolato, il Barolo, la sua risata mentre spegnevo le candeline e accendevo l’ennesima follia. Questo non lo voglio perdere. Questo è mio.
Compone il numero. Lei risponde.
«Ciao Monica. Sono Antonio. Non ci sentiamo da tanto, come stai? Ti va un bicchiere? Magari anche due…»
Sorride.


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