L’uomo in salita | Delirio verticale in contesto aziendale

L’uomo in salita

Delirio verticale in contesto aziendale

Luci fredde. Il solito ronzio ovattato dell’ascensore. Si sentono i ding, regolari, come una sveglia che non smette mai di suonare. Lui, uomo tra i cinquanta e i sessanta, abito impeccabile, valigetta al seguito, quello sguardo da professionista che ha visto di tutto — e ne ha tratto le debite conclusioni. È apparentemente solo, ma la voce gli tiene compagnia: parla con quel tono che conosce bene la differenza tra sarcasmo e galateo.

Ding. Prima fermata. Si affaccia appena, il viso piegato in un’espressione da turista snob.

I piani bassi. Le fondamenta. Qui si lavora, si suda, si sogna — ma sempre a bassa quota. Si fanno le pause di rito: il caffè annacquato, le sigarette fuori, i gruppetti che discutono di calcio, influencer e turni di ferie. Le colazioni collettive, quelle con la brioche che trasuda burro sintetico.

L’orizzonte? Beh… Riccione, nei casi ottimistici. Ibiza, per gli audaci. Poi le rate del SUV — bianco, enorme, rigorosamente opaco di smog — parcheggiato con disinvoltura davanti alla palestra. I figli chiassosi come coriandoli a Carnevale, i tatuaggi fantasiosi, lo smartphone che costa come un viaggio, il mutuo che pesa come un’eredità di cemento.

Tengono in piedi l’azienda, dicono. Come le formiche tengono in piedi il formicaio. Con la differenza che le formiche non si fanno selfie. E non si indebitano per un brunch.

Si sistema la giacca, con quell’aria distratta da cerimonia aziendale.

Tanto… qui dentro siamo tutti uguali. Lo dicono ovunque, come una ninna nanna rassicurante. La grande messinscena democratica del mondo aziendale. Tutti i piani uguali. Pareti grigio-sabbia, moquette stanca, quell’odore standard di disinfettante, plastica e ambizioni che ristagnano.

Accenna un sorriso, tra l’incredulo e il divertito.

E poi quelle frasi… che pendono dai muri come salsicce stagionate: “Capitale umano”, “Leadership condivisa”, “Insieme si vince”.

Sì, certo. Con calma. Magari nella prossima vita. Vincono quelli che stanno sopra. Gli altri… si scambiano pacche sulle spalle, buoni pasto e newsletter motivazionali.

Ding. L’ascensore riparte, si arrampica piano. Il tono si fa più secco, più tagliente.

E poi si sale. I piani medi. Il vero safari aziendale. Qui si sgranocchia ambizione a colazione e si sputano sorrisi come semini. Tutti colleghi, tutti “collaborativi”, tutti pronti ad alzare il pollice… finché non ti giri. Allora ti ritrovi il coltello piantato nella schiena. Professionale, ovviamente. Col logo aziendale ben inciso, che fa più elegante.

Si osserva nello specchio dell’ascensore, il sorriso un po’ più sottile, quasi amaro.

Li riconosci subito. Uniformi d’ordinanza: stessi abiti impeccabilmente stirati, stessi discorsi impastati di slogan, stesse auto aziendali con la scritta benefit ben visibile — che fa più prestigio, si sa — e stesse segretarie, selezionate con rigore su tre criteri inossidabili: giovinezza, scollatura, discrezione.

Sospira, il tono si colora di una stanca indulgenza.

E le mogli. Ah, le mogli… meglio non entrare nel dettaglio. Eccessive per vocazione. Vestite oltre il necessario, truccate oltre il ragionevole, giovani oltre il credibile, e — dettaglio non trascurabile — a volte, oltre il consapevole. Accessori da sfoggiare tra un weekend aziendale e l’altro, nelle foto sullo yacht — in leasing pure quello — accanto a mariti di saldo, in promozione.

La voce si fa più affilata, ma sempre con quell’apparente compostezza.

Tutti lì, a contendersi il metro del successo: ficus in ufficio più o meno rigoglioso, centimetri della scrivania, cavalli sotto il cofano, taglio di capelli della moglie nuova — quando nuova è anche la moglie. Li senti che ripetono, con aria ispirata: “Sto crescendo, mi hanno dato un progetto importante”. Traduzione simultanea: ho silurato il collega, prima che lui silurasse me.

Pausa breve. Il tono si abbassa, sfuma quasi in un ricordo, ma senza perdere il sarcasmo.

Chissà che fine ha fatto il mio vecchio mentore. Lui sì che ci credeva… ci credeva sul serio. Ci metteva l’anima, la faccia, le notti, le ferie saltate. Diceva che il lavoro è dignità, è missione, è costruire qualcosa.

Mezzo sorriso storto, carico di veleno trattenuto.

E forse, sotto sotto, mi considerava pure una sua creatura. Il pupillo. Il promettente. L’allievo modello. E invece… Zac. Il coltello gliel’ho piantato io. Professionale, ovviamente.

Si sistema la giacca, con lentezza calcolata.

Magari adesso ci ripensa, ogni tanto. Magari, tra una passeggiata al parco e una fetta di torta ai compleanni dei nipoti, si domanda: “Come ho potuto essere così… cretino?” O forse no. Forse si racconta che è stata una scelta sua. Che ha mollato tutto per stare con la famiglia. Che l’ho liberato io, in fondo.

Breve pausa. Il sorriso si fa più affilato, quasi divertito.

Magari gli ho pure fatto un favore. Niente più bilanci, niente più budget, niente più scartoffie da firmare col sudore sotto la camicia. Solo mattine tutte uguali, parchi, paperelle e nipoti che gridano. Un inferno… travestito da pensione felice.

Il tono si ricompone, lo sguardo si fa più fermo.

Io, intanto, sono salito. E a salire… si impara solo così. Prima studi, poi sorridi, poi… colpisci. Chi non lo fa… finisce a dar da mangiare ai piccioni.

Lo sguardo al display. L’ascensore sale ancora.

Ma non si sale davvero, eh. Prima dei piani alti… ci sono i piani invisibili. Quelli che non compaiono sulla piantina, senza numeri sui pulsanti. Esistono, ma solo per pochi eletti. Zona grigia, spazio intermedio… limbo per consulenti, avvocati, membri di comitati speciali.

I piani invisibili… lì ci finisci se sei abbastanza furbo, abbastanza inutile… o abbastanza pericoloso. Ti affibbiano un ruolo elegante: “consigliere tecnico”, “membro indipendente”, “facilitatore di processo”, “advisor sulla governance”. Parole bellissime. Dietro… il nulla. Non hai un ufficio, non hai un team. Hai solo la parcella. E quella, curiosamente, arriva sempre puntuale. Più evanescente il ruolo… più concreta la fattura.

Nei piani invisibili girano i più bravi. Gente che non compare nelle riunioni ufficiali, ma sussurra nei corridoi. Li riconosci dalle cravatte sobrie, dagli sguardi sfuggenti, dalle mani curate. Occupano poltrone che nessuno assegna, distribuiscono pareri che nessuno ha chiesto… e fatturano. Sempre. È il loro modo di salire. Silenziosi, discreti, intoccabili… fino al giorno in cui spariscono. Fatti evaporare da un CDA più cinico di loro.

Mi chiedo se sia peggio restare in quei piani che non esistono… o schiantarsi giù davvero. Almeno se cadi, senti il tonfo. Se ti dissolvi nei piani invisibili… è come morire senza lasciare tracce. A parte, ovviamente, le parcelle.

Pausa. Guarda il display. L’ascensore sale ancora.

Ma si può sempre salire, oh sì. C’è sempre un gradino più su. E lassù… ci abitano gli dei. Dei tossici, s’intende.

Ding. L’ascensore continua la sua corsa. Il tono dell’uomo si abbassa, viscido, compiaciuto.

I piani alti. L’empireo aziendale. Qui non si sgobba, non si suda, non si alza mai la voce. Si sussurra, si pianifica, si distilla veleno col sorriso.

Sorride, gli occhi che si piegano appena, come se vedesse arrivare la battuta prima ancora di dirla.

Ti offrono il caffè. Un gesto cortese, in apparenza. Mai accettare il caffè, potrebbe contenere… chiamiamolo polonio aziendale, in polvere sottile. Ti chiamano “risorsa chiave”, “colonna portante”, ti invitano a quei pranzi esclusivi, con vista panoramica e tartine minimaliste… e mentre ti stringono la mano, con l’altra sistemano il tuo funerale professionale. Con catering e grafica coordinata.

Sospira, scuote il capo con un cinismo stanco, come chi conosce la musica e non ha più voglia di ballare.

Tutti lì, a spremere gli azionisti con il sorriso d’ordinanza. Premi produzione, stock options, MBO a cascata… un elegante giro di parole per succhiare capitale come zanzare incravattate. E ognuno, diligentemente, mette via il suo gruzzolo. Il famoso tesoretto personale. Perché il vero sogno non è il successo. È mollare tutto, aprire la propria startup, scalare il mondo e raccontarlo su LinkedIn.

Accenna un sorriso amaro, come chi ha già visto il finale del film.

E fregano. Oh, fregano. Fregano gli investitori, fregano i soci, fregano il sistema. Ma il sistema… è vecchio. Più vecchio di loro, più scaltro di loro. Appena si sentono arrivati, appena respirano libertà… zac. Si fanno fregare. Dai loro manager, dai consulenti, dal consiglio d’amministrazione che li applaude… e li archivia.

Gli occhi si stringono, il tono si abbassa.

È il ciclo naturale. La catena alimentare della finanza. Mastichi qualcuno, ti divorano, vieni digerito. Si riparte. Sempre uguale. Sempre in salita. Spremi, fuggi, ti risucchiano.

L’ascensore si blocca. Un sussulto secco. Le luci tremolano, un istante sospese tra il blackout e l’effetto speciale. Silenzio. Si guarda intorno, perplesso, ma il volto resta composto.

…Ah.

Un brivido, sottile come una corrente d’aria, gli attraversa la schiena. Ma si ricompone subito, abituato a dominare la scena.

Normale amministrazione. Piccoli intoppi tecnici. Una questione di minuti. Mi verranno a prendere immediatamente.

Sorride, compiaciuto, come chi già immagina il proprio nome sussurrato nelle stanze importanti.

D’altronde… io sono il motore silenzioso di questo posto. La cinghia che trasmette, la scintilla che accende, il catalizzatore, per i più raffinati. Senza di me? Fermi tutti. Si spengono le luci, si inceppa il meccanismo.

Controlla l’orologio, con la sicurezza tranquilla di chi sa che i minuti… contano solo per gli altri.

Le riunioni restano in sospeso, i contratti non si chiudono, gli allineamenti strategici galleggiano lì… come palline colorate senza albero.

Accenna una risata, tra l’autocompiaciuto e il teatrale.

Mi aspettano. Mi cercano. Staranno già convocando il tavolo di crisi: “Priorità uno, riportate giù il Dottore. Senza di lui non si firma, senza di lui non si respira, senza di lui… si naviga a vista”.

Si muove nello spazio ristretto con piccoli gesti misurati, come se stesse provando un discorso davanti allo specchio.

Io sono… il collante. Il garante. L’uomo chiave. Se mi tolgo, il sistema vacilla. Se mi fermo…

Si interrompe. Il sorriso per un attimo si incrina, come una crepa invisibile sotto la vernice. Poi si ricompone, gonfio di sicurezza.

No, no. Mi verranno a cercare. Sempre. È una legge non scritta, scolpita nei regolamenti invisibili. Senza di me…

Si blocca. Ascolta. Il vuoto.

Mi verranno a prendere. Mi stanno già cercando.

Una pausa. Gli occhi si muovono, come se seguissero un ragionamento che gli sfugge dalle mani.

Devono cercarmi… giusto?

Un’incrinatura nella voce, sottile come il primo filo di ruggine su una superficie lucida. Poi si ricompatta, prova a riprendersi spazio.

Senza di me non si decide, non si firma, non si ragiona. Io sono la variabile strategica. Il perno. Il vertice.

Un’altra pausa. Più breve, più tagliente.

…O forse no.

Serra la mascella, lo sguardo si fa più mobile, controlla l’ascensore come se lo spazio gli fosse improvvisamente nemico.

Magari… magari non si sono nemmeno accorti. Magari stanno facendo finta di nulla. Magari le riunioni scorrono, i contratti si chiudono, le mail si inoltrano… e nessuno, nessuno ha notato la mia assenza.

Il respiro si fa più corto. Accenna una risata, nervosa, come chi sta per raccontarsi una bugia e sa già che non reggerà.

Impossibile. Assurdo. Io sono… io sono…

Si ferma. Guarda le mani. Il lampo della consapevolezza arriva sottile, preciso come una puntura.

Sono… intercambiabile.

Lo mormora, piano, mentre il panico sale come febbre silenziosa sotto la pelle.

Sono un badge. Una sigla su un organigramma. Una voce nei costi fissi.

Fanno finta che conti. Ma contano i numeri, i report, gli indici di gradimento. Io? Io sono… una riga di Excel. Si seleziona. Si cancella. Si copia. Si incolla. Si sostituisce.

Si guarda intorno. Una risata strozzata, il suono di chi inciampa nella propria vanità.

E se… se mi avessero già sostituito?

Silenzio teso. Poi: un rumore. Le porte si aprono. Il corpo si irrigidisce, il volto si distende in una compostezza forzata. Davanti a lui, fuori dall’ascensore, un uomo identico. Stesso abito, stesso sguardo levigato dall’abitudine, stesso modo di muoversi, quasi coreografato. Si osservano. Per un istante sembrano due specchi che si studiano, complici e sospettosi. Entrambi accennano un passo, si bloccano, si fanno strada a vicenda, con movimenti perfettamente sincronizzati, grotteschi nella loro precisione. Il protagonista esce, l’altro entra. Si scambiano le posizioni con la geometria fredda di un automatismo ben collaudato.

L’uomo si volta, un attimo sospeso. Poi, mezzo sorriso amaro, sussurra:

Ottima politica di backup. Complimenti. Anche se… mi ricordavo più giovane.

Si sistema la giacca, si allontana tra i corridoi. Le porte si richiudono. L’ascensore riparte. Buio.

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