Il parente in affitto | Monologo per uomo solo e famiglie malate

Il parente in affitto

Monologo per uomo solo e famiglie malate

Luci basse. Un uomo tra i cinquanta e i sessant’anni, abito sobrio, valigia piccola o borsa a tracolla. È nel corridoio di casa, si sistema davanti a uno specchio invisibile, si prepara a uscire. Parla al pubblico, tono ironico, fragile, ogni tanto si incrina.

Finto zio, cugino socievole, fratello dell’ultimo minuto… oggi faccio il figlio. Pacchetto completo, venti sorrisi, cinque abbracci, due battute a tema. Professionista, serio. Il mio campo? La famiglia.

Si sistema la camicia.

Sono un parente in affitto. Specializzato in dinamiche tossiche, matrimoni tristi, funerali con buffet, compleanni che puzzano di eredità. Mi chiamano quando serve il parente equilibrato, la pecora bianca in un gregge marcio.

Faccio tutto, pacchetti su misura. Servizio completo o intervento mirato, dipende dalle esigenze. Marito per riunioni familiari — molto richiesto. Donne in carriera, indipendenti, brillanti… che però hanno sorelle con tre figli e madri che chiedono: “E tu quando metti la testa a posto?”. Io arrivo, giacca in ordine, sguardo complice, e improvvisamente: rispetto. “Ha un uomo accanto, allora può esistere anche lei.”

Sorriso amaro.

Zio di sicurezza per ragazze che partono. La famiglia vuole sembrare moderna, ma poi la manda a Berlino col corredo e uno zio protettivo a pagamento. Fratello affidabile alle cene di Natale, quello che fa da cuscinetto tra lo zio fascista e il cugino vegano. Figlio equilibrato ai funerali, che regge la bara, che mostra una lacrimuccia,  che firma i documenti, che gestisce l’imbarazzo.

Alza le spalle.

Ogni tanto qualcuno si confonde. Pensa che dentro ci sia ancora un cuore, un senso, un attimo di commozione. Poi succede come quella volta…

Assunto come fratello dello sposo. Cinquecento invitati, villa, catering, droni che riprendono dall’alto. Lo sposo? Mai visto prima. La sposa? Mi guardava come se fossi un errore nei conti. Foto di gruppo, brindisi, discorsi. Mi si avvicina una zia, occhi lucidi, mi abbraccia: “Lo sai che sei sempre stato il mio preferito?” Io sorrido. Non sapevo nemmeno chi fosse.

Padre morto, famiglia distrutta, caos. Mi chiamano per fare il figlio maggiore. Il vero figlio? Fuggito da anni in Guatemala, non tornava, questione di tasse non pagate, truffe, cose così. Io lì, davanti alla bara, mano sulla spalla della madre, sguardo assorto. Il prete si commuove, gli amici mi stringono la mano. Il defunto? Mai visto. La madre? Alla fine mi ha pure ringraziato: “Sei stato forte, proprio come tuo padre.”

Cenone di famiglia. Mi assumono come cugino simpatico. Tavolo lungo, parenti sorridenti, tensione nell’aria come odore di detersivo. Io racconto due barzellette da manuale, tutti ridono, mi battono le mani. A fine serata, la padrona di casa mi fa l’occhiolino: “Sei meglio di quegli ubriaconi dei cugini veri, almeno pagandoti, sappiamo che resti sobrio.”

Sospira, si sistema la giacca.

Tutti vogliono credere che sia affetto. A me basta che paghino. Più vero del vero. Entro, sorrido, stringo mani, racconto due aneddoti fasulli… e tutti felici.

Sospira, il tono si abbassa.

Non lo faccio per soldi. O meglio, sì, mi pagano… ma il denaro è un dettaglio. Lo faccio per il contagio. Mi lascio toccare, abbracciare, infilare nelle foto…

Sorride amaro.

Porto dentro il dubbio, la crepa, la vertigine. Lo sentono. Magari non subito, magari non a parole, ma lo sentono. Che non sono dei loro. Eppure… mi vogliono lì. Perché serve la foto perfetta. L’albero genealogico rigoglioso, che fa ombra sui vicini, che si mostra bene nelle cornici d’argento. Non importa se le radici sono marce. Se sotto la terra c’è muffa, vermi, segreti che nessuno vuole scavare. Tanto basta che in superficie sembri tutto verde, sano, armonioso.

Sorride amaramente.

Io entro, mi piazzo tra loro, porto il tarlo. Sguardo un po’ troppo lucido, abbraccio un po’ troppo tecnico, parola che suona bene ma non pesa. E qualcuno, sempre, si chiede: “Questo… è uno di noi?” Non lo dicono. Non lo ammettono. Ma lo pensano. E il pensiero resta lì, come un graffio su una parete nuova, come un neo che forse cresce.

Si guarda le mani.

Io non ho una famiglia. O meglio… ce l’avevo. Tutti al posto giusto: madre martire, padre giudicante, fratello, sorella, zii, cugini, foto sorridenti. Sembrava tutto a norma. Ricorrenze, pranzi, albero finto e apparenze vere. Ma sotto… ci si sbranava. Sorrisi, pacche, ma i coltelli giravano bassi. “Ti voglio bene”, “lo facciamo per te”, e intanto veleno nei bicchieri, conti in sospeso dietro ogni carezza.

Poi mia moglie si è ammalata. Di quelle malattie lunghe, che ti mangiano piano. All’inizio c’erano tutti, a far vedere che la famiglia è importante. Poi… uno alla volta… si sono dissolti. Amici, parenti, cugini, sorelle su WhatsApp. Alla fine c’ero solo io. E lei, che si spegneva a rate.

Gli altri? Impegnati. In ferie. Presi dalla loro salute mentale, come si dice ora. Ma al funerale… tutti in prima fila, vestiti stirati, lacrime a comando.

Da lì, nella mia testa, ero solo. O almeno… è la storia che mi racconto. Che mi hanno mollato. Ma forse… forse li ho aiutati a scappare. Con lo sguardo storto, il rancore, l’orgoglio idiota. Ti convinci che sei la vittima. Poi lo sai: ti sei lasciato solo da solo.

Ora? Mi pagano per riempire i vuoti degli altri. Io… vendico il mio, tappando il loro.

Si aggiusta la giacca.

Così ho imparato a farlo su commissione. Dicono che sono bravo. Che metto tutti a loro agio. Che “sembro vero”. Sembro. È lì la vendetta. Fingere meglio di loro. Diventare la loro menzogna preferita.

Piccola pausa. Si blocca, il tono si fa più teso.

Lo faccio per ribellione. Faccio il parente su contratto come una prostituta malata fa il suo mestiere. Non per denaro, non per piacere, ma per il contagio. Per vendicarmi. Per infilarmi nelle loro feste, nelle foto, nei brindisi, e lasciare il seme del dubbio. Sorridere come se fossi dei loro, mentre so benissimo che non lo sono. Mi stringono la mano, mi abbracciano, mi presentano come “uno di famiglia”… e io dentro rido. Porto il virus. La crepa. La vertigine. Perché lo sentono. Prima o poi lo sentono. Che non appartengo. E lì… in quel momento… ho vinto.

Pausa di riflessione.

Oggi però è diverso. Oggi… hanno chiamato dalla mia famiglia. Vogliono un parente in affitto. Hanno scelto me. Forse non mi hanno riconosciuto. O forse sì. Forse finalmente sanno che sono estraneo abbastanza da pagarmi.

Sospira, più fragile.

Vado. Farò il mio lavoro. Come sempre. Entro, sorrido, porto il mio veleno. Mi infilo tra le loro pareti, tra i loro salotti lucidi, tra le foto appese con le cornici tutte uguali. Magari questa volta… mi stringeranno la mano. Magari questa volta… mi diranno che sembro vero anche io. Magari…

Si interrompe, breve silenzio.

Magari… saranno loro, per una volta, a sembrare veri a me. Succede… a volte succede. Un gesto, uno sguardo, una parola che non sembra di plastica. Ci casco ancora, lo so. Mi frego da solo. Perché alla fine… Alla fine ne ho bisogno anch’io. Anche se faccio finta di riderci sopra. Anche se mi racconto che sono lì per infettare, per sabotare, per rovinare il teatrino. La verità? Magari… magari vorrei solo restarci dentro, al teatrino. Solo… senza il copione.

Si volta verso la porta. Breve pausa. Buio.

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