La zona neutra
Breve sosta prima del giudizio universale
Luci basse. Si sente la pioggia fuori, il ticchettio regolare contro le finestre.
Una porta si apre piano. Entra lei: donna tra i quarantacinque e i cinquanta. Elegante, senza ostentare. Non perfetta: capelli un po’ scomposti dalla pioggia, impermeabile bagnato, ombrello gocciolante in mano, borsa capiente a tracolla, una busta con un dolce o un regalo. Il corridoio è ordinato, leggermente borghese, con tocchi fuori luogo: foto di famiglia, soprammobili kitsch, uno specchio al muro, un tappeto che si arriccia da un lato. Dalla porta in fondo arrivano risate e voci soffuse: la festa è già iniziata. Nessuno è venuto ad aprire.
(Lei posa l’ombrello, la borsa, il dolce. Si osserva, sospira. E inizia il monologo.)
Ecco, nessuno viene più ad aprirmi.
Segno che sono ufficialmente una presenza abituale.
Non abbastanza “di casa” da avere il telecomando del cancello…
Ma abbastanza da entrare da sola, lavarmi i piedi e portarmi il dolce.
(Sbatte l’ombrello due volte, lo chiude con gesto secco e lo infila nel portaombrelli fuori, controlla che non cada.)
Prima regola quando entri in territorio… diplomatico: lascia le armi fuori.
L’acqua, l’ombrello… e le illusioni.
Perché non sei qui per la guerra.
Sei la nuova compagna del figlio.
(Sorriso trattenuto, si asciuga i piedi sullo zerbino.)
Il figlio che ha abbastanza anni meno di te.
Tu, divorziata con un figlio tuo che ti chiama “mamma” solo quando gli serve il bancomat.
Loro, i suoceri, col sorriso tirato e i mobili lucidati a specchio.
E io… io che insisto.
(Chiude piano la porta, il rumore della pioggia sfuma. Rimane il silenzio ovattato del corridoio.)
Zona neutra.
Non sei più fuori, non sei ancora dentro.
Il corridoio.
Terra di nessuno.
Come quei cinque secondi prima di un esame… o di un pranzo coi suoceri.
Che poi “suoceri” è già un’anticipazione ottimista.
Diciamo… i genitori del mio compagno.
Il mio compagno giovane.
Il mio compagno irresponsabile e adorabile.
E io…
Io, responsabile, adorabile… e con le occhiaie a ricordarmi che ho il doppio delle bollette e metà delle certezze.
(Accenna un sorriso forzato allo specchio, si sistema una ciocca ribelle.)
E poi dicono che le donne mature devono accettarsi.
Certo.
Accettarsi, presentabili, brillanti…
E con almeno vent’anni di meno, possibilmente.
Togliersi l’impermeabile è come spogliarsi delle difese.
Rimani lì… più vulnerabile, più giudicabile.
Seconda regola quando entri in casa dei suoceri: toglierti l’impermeabile, ma tenerti addosso una certa corazza.
Che tanto… i complimenti saranno educati, i giudizi… impermeabili pure quelli.
E loro, dietro quella porta…
(Accenna con lo sguardo alla porta in fondo al corridoio.)
…loro aspettano di valutare se sei degna del salotto, del prosecco e del buffet di finger food.
(Si sfila l’impermeabile con calma, lo piega senza fretta, lo appoggia sull’attaccapanni. Nota con la coda dell’occhio un altro impermeabile già appeso, lo sfiora, lo osserva.)
Ecco.
Il capo firmato della suocera.
O meglio… la copia perfetta.
Il lusso a chilometro zero, direttamente dal mercato cinese.
Classico trench d’autore, con la fodera che sa di plastica e la zip che si incastra al primo acquazzone.
Lei dice che è originale.
Originale sicuramente lo è… originale di Shenzhen.
(Sorriso secco, appena accennato, si sistema l’impermeabile, controlla che il suo almeno sembri presentabile.)
C’è chi investe in futuro, chi in immobili… e chi in sartoria farlocca.
Ma, in fondo, chi sono io per giudicare?
Io sono quella con il curriculum vero, le rughe vere… e il compagno più giovane.
Lei ha la borsa griffata e l’etichetta sbagliata.
Siamo pari, no?
Soprammobili che gridano “abbiamo fatto le vacanze in posti esotici, anche se non ce li ricordiamo”.
Gente con la casa perfetta e il coraggio di esporre questa roba.
Io, invece… io sono l’elemento decorativo fuori catalogo.
(Si passa una mano tra i capelli, li scuote per riprendere volume. Controlla il vestito, liscia il tessuto.)
A quarantasette anni il concetto di “volume” è diventato una battaglia persa.
I capelli piatti, le occhiaie in 3D, le scarpe che sembrano un attentato alla mia autostima.
Eppure, continuo a provarci.
(Estrae dalla borsa un piccolo specchietto e un rossetto, sistema il trucco in modo rapido, con espressione ironica.)
Il trucco è una strategia di sopravvivenza.
Non copre le rughe, ma distrae gli sguardi.
Tipo fuochi d’artificio… se guardano la bocca, non notano il resto.
(Mentre si guarda allo specchio lo sguardo le cade su una foto incorniciata. Si ferma. La prende in mano. È il suo compagno, più giovane, un sorriso aperto, una coppa sportiva in mano, il classico trofeo da gara scolastica.)
E guarda un po’…
Eccolo.
Il mio principe azzurro versione junior.
Lo sguardo brillante, le spalle larghe, la coppa tra le mani.
Vittorioso.
Pulito.
Pettinato come un testimonial da catalogo.
(Per un attimo il tono si addolcisce, quasi sincero.)
E bello…
Da toglierti il fiato, pure adesso.
Anche se adesso… ha qualche ruga in più, ma sempre meno delle mie.
E ogni tanto… quella faccia da ragazzino viene fuori ancora.
E io mi sciolgo. Come una cretina.
(Fa un mezzo sorriso, poi lo sguardo si incupisce, il tono si fa più tagliente.)
Solo che… quando lui faceva questa foto, con la sua coppa da campione di provincia…
Io mi laureavo.
Nella prestigiosissima, costosissima università privata.
Mantenuta a suon di sacrifici, caffè serviti dietro il bancone e tacchi da stendista alle fiere.
Giornate infinite, notti a studiare, mattine a versare cappuccini, pomeriggi sui tacchi a dire “buongiorno” col sorriso da hostess.
Mica coppe.
Mica applausi.
Solo vesciche ai piedi e conti da pagare.
(Abbassa la foto, scuote la testa, mezzo sorriso ruvido.)
E adesso eccoci qui.
Lui con le sue coppe, io con i miei cerotti per i talloni…
E la suocera con la giacca di Shenzhen.
Famiglia moderna, no?
(Si ferma un istante, lo sguardo si perde, la voce si fa più bassa.)
Eppure… lo ricordo ancora quel giorno.
Lui, la coppa, gli applausi, la madre orgogliosa che lo fotografava…
Io… che mi svegliavo all’alba, con i piedi gonfi, i conti da pagare, gli occhi che bruciavano…
E pensavo: un giorno… un giorno anch’io sarò nel posto giusto.
Sarò quella che sorride senza fatica, quella che ha tutto a posto… dentro e fuori.
Invece… eccomi qui.
Ancora fuori posto.
Ancora col trucco che cerca di coprire le crepe.
(Riprende fiato, si ricompone, il tono torna più tagliente.)
Ma almeno i cerotti li metto bene.
E la suocera ha ancora la giacca tarocca.
Pari e patta.
(Abbassa la foto, sospira, lo sguardo le scivola di nuovo allo specchio. Si osserva per un istante in silenzio. Poi si ricompone. Si sistema il vestito, liscia il tessuto, tira su le spalle. Si guarda con occhio critico, ma stavolta più feroce che rassegnato.)
Dai, su…
Siamo serie.
Il vestito è decente.
Non stringe dove non deve.
Non segna più del dovuto… o almeno, non più del dovuto legittimo per una donna che, ogni santa mattina, alle sette, è lì…
Sul tappetino.
A tirare, allungare, contrarre… Pilates.
Che poi suona chic, ma è solo un modo elegante per dire: sudare in silenzio, mentre il resto del mondo ancora dorme.
(Tira giù il vestito, si osserva i fianchi con occhio clinico.)
Tutti che dicono: “Accettati, amati, sii te stessa…”
Sì.
Te stessa…
A patto che te stessa sia tonica, asciutta e con l’addome che non racconta l’età.
(Sorride amaro, aggiusta il trucco in fretta, controlla le scarpe.)
Colazione saltata.
Pranzo contabile al grammo.
Cena? Cena un aperitivo lungo e qualche sorriso stirato.
E la cosa più assurda?
Funziona.
Più o meno.
A distanza, con le luci giuste, sembro quasi ancora quella che si diplomava con i tacchi da stendista e i capelli piastrati.
(Si guarda un’ultima volta, si sistema i capelli.)
E se non basta…
Beh, un po’ di rossetto, un po’ di Pilates… e una gran dose di faccia tosta.
(Si liscia il vestito, ma inevitabilmente lo sguardo le ricade sul viso, nello specchio. Si avvicina leggermente, controlla le linee intorno agli occhi, le labbra. Fa una smorfia, quasi a sfidare il riflesso.)
E poi c’è la faccia.
Quella… quella non mente.
Neanche con le ore di sonno contate, le creme antirughe e il correttore miracoloso dell’ultima influencer ventenne.
(Tira leggermente la pelle ai lati degli occhi, si osserva con occhio spietato.)
Le rughe dicono: esperienza.
I dermatologi dicono: filler.
Io dico: buongiorno, realtà.
(Sistema i capelli con le dita, cerca volume, alza le radici con gesto meccanico.)
E i capelli…
Quando collaborano sembrano quasi giovani.
Quando fanno di testa loro…
Sembrano i miei.
(Sorride con un filo di amarezza, si osserva da un lato, poi dall’altro.)
Eppure, in fondo, è ancora tutto lì.
Il viso che ride quando vuole, la testa alta quando serve…
E un compagno che, ogni tanto, mi guarda come se fossi ancora… quella che ero.
O almeno, quella che lui crede che io sia.
Il trucco fa il resto.
L’autostima il miracolo.
(Si sistema i capelli, li solleva con le dita cercando volume, osserva il viso con occhio spietato, poi si ferma un attimo, il sorriso le si piega di lato.)
Lui dice sempre che il cervello è l’organo più sexy.
Romantico, no?
Peccato che non ho ancora capito se sia un complimento… o un modo elegante per dire che il resto ha già dato.
(Si aggiusta l’attaccatura dei capelli, un cenno ironico agli zigomi.)
Però lo dice convinto.
E io… faccio finta di crederci.
Come quando mi guardo allo specchio e mi racconto che è solo stanchezza… e non gravità.
(Mentre si sistema, lo sguardo le cade su qualcosa riflesso nello specchio. Si ferma. Si volta appena, poi osserva meglio il riflesso: una fotografia incorniciata sul mobile alle sue spalle. Si avvicina, la guarda di sbieco attraverso lo specchio.)
Eccoli.
I padroni di casa.
La stirpe.
(Sospira appena, gli occhi si soffermano sulla figura del suocero.)
Lui…
Il suocero… sembra un brav’uomo.
Quelli che ti stringono la mano un filo troppo forte, ti guardano negli occhi come se sapessero tutto… e in realtà, hanno solo imparato a non farsi troppe domande.
Bonaccione, sì… ma per scelta.
Fa il simpatico, racconta barzellette, ride un po’ troppo… così nessuno gli chiede di essere serio.
Occhioni, sorriso largo… il classico uomo che accetta tutto — almeno in apparenza.
Tua figlia con i piercing, il mutuo che non si estingue, la moglie con l’impermeabile tarocco…
Accetta tutto.
Ma non perché non vede…
Perché ha capito che vedere e stare zitti è l’unico modo per sopravvivere.
(Pausa, la voce si piega di un millimetro, come se il pensiero le fosse scappato.)
Tutto.
Accetterebbe anche me.
Ops…
(Si morde appena il labbro, mezza smorfia ironica, poi ruota lo sguardo. Resta a osservare il riflesso nel vetro. Si sposta leggermente, il ritratto della suocera emerge nello specchio, accanto a quello del suocero.)
E lei…
La Madre.
Madre, matriarca, regina indiscussa del perbenismo imbalsamato.
(Si avvicina, osserva la foto con attenzione tagliente.)
Sorriso calibrato, piega dei capelli studiata, giacca… quasi sicuramente griffata, quasi sicuramente contraffatta.
E quello sguardo.
Quello sguardo che non lascia scampo.
Perché, diciamocelo, qualsiasi donna con più di cinque anni meno del suo adorato pupo… non è una possibile compagna.
È una sicura rivale da schiacciare.
Eppure… a guardarla bene… dietro quel sorriso stirato c’è una fatica antica.
Forse anche lei si è sentita così, una volta… la giovane intrusa…
Prima di trasformarsi nella guardiana del tempio.
(Sorride appena, veleno sottile nella voce.)
La biologia è una questione di dettagli.
L’amore… pure.
Ma il potere materno… quello non ha età.
(Si sistema un bottone del vestito, come se si preparasse alla battaglia sottile.)
E in questo gioco di apparenze, io sono l’intrusa.
La donna abbastanza matura per essere rispettabile.
Abbastanza giovane per essere… pericolosa.
Non abbastanza sciocca per farmi schiacciare.
(Si stacca dallo specchio, riprende a camminare lungo il corridoio. Dopo pochi passi si ferma: sul mobile accanto a un vaso vistoso, un souvenir vistosamente fuori contesto. Una mano di Fatima decorata d’oro e blu, o un piccolo narghilè da esposizione.)
Ah, ecco… il tocco esotico.
Immancabile.
Un viaggio in Medio Oriente, suppongo… o più probabilmente, fino al negozio etnico della zona industriale.
(Si avvicina, sfiora l’oggetto con un dito, osservandolo con ironia trattenuta.)
Parvenu, si diceva una volta.
Oggi si chiama “internazionalizzazione del salotto”.
Ma l’effetto è sempre lo stesso: souvenir presi a peso, cultura in saldo.
(Sospira, accenna un sorriso tagliente.)
Li vedo, li immagino…
Lei, in hotel, che si stupisce che non le servono i maccheroni e il vino rosso.
Il suocero, bonaccione, che fa lo scemo per non andare in guerra…
Che poi, negli hotel turistici, la guerra la vedi solo nelle tovaglie stropicciate.
(Si ferma un attimo, lo sguardo si fa più perfido, il tono abbassa di mezzo registro.)
E poi, i mercatini…
Gli imbonitori locali che fingono di contrattare la vendita delle donne…
Un vecchio trucco da quattro soldi, un gioco che piace alle turiste: quel brivido di sensualità selvaggia, immaginarsi schiave nell’harem…
(Pausa, sguardo velenoso, voce ruvida di sottofondo.)
Ma sono pronta a scommettere che nessuno, e dico nessuno, abbia avuto il coraggio di farlo con mia suocera.
Nemmeno per finta.
Nemmeno per provocazione.
Nemmeno sotto minaccia di vedere le tende del loro negozio bruciare.
(Solleva il souvenir, lo osserva un istante con una smorfia divertita, lo rimette al suo posto con precisione chirurgica. Continua a muoversi lungo il corridoio con passo calcolato, osserva i dettagli della casa: un mobile troppo lucido, una cornice d’argento, un vaso con fiori finti leggermente impolverati.)
Il corridoio dice più delle persone che ci abitano.
Nelle case perfette il corridoio è in ordine, le scarpe allineate, i quadri simmetrici.
Nelle case vere…
(Solleva una cornice leggermente storta, la raddrizza con gesto metodico.)
…nelle case vere c’è sempre qualcosa che pende, che non torna.
Come nella vita. Come nei rapporti umani.
Stasera loro sorrideranno, io sorriderò, ognuno pende un po’ da una parte ma si fa finta che sia tutto dritto.
(Si ferma un attimo davanti a un mobile basso, accarezza distrattamente un soprammobile kitsch, scuote la testa.)
Avranno anche il buon gusto per i buffet, ma sui soprammobili hanno fallito.
E su di me… probabilmente stanno ancora decidendo.
(Procede, un respiro più profondo. Il corridoio si stringe, la porta chiusa in fondo si avvicina. Dalla porta filtrano suoni ovattati: voci, risate, la musica bassa di una festa casalinga. Pochi passi. Si ferma. È arrivata di fronte alla porta chiusa. Da dietro si sente il rumore ovattato di voci, risate, piatti. La festa è già iniziata. Resta immobile, osserva la porta come se fosse una barriera invalicabile.)
Ecco.
Il punto di non ritorno.
La porta.
(Abbassa lo sguardo, prende fiato, lo lascia uscire piano.)
Mi accetteranno?
No, non così, non a parole…
Mi accetteranno davvero?
Con le mie rughe, i miei silenzi, i miei giorni storti?
(Sorride un po’, amaro.)
Mi vorranno bene?
O resterò sempre l’ospite temporanea…
La donna che gli ha rubato il figlio, il ragazzo, il futuro rampollo?
(Tocca leggermente la maniglia, la lascia.)
Non è che… soffrirò?
Non qui, adesso…
Ma dopo.
Quando le maschere cadono, i sorrisi si slacciano e resti da sola con i tuoi difetti e le loro etichette addosso.
(Pausa. Si sistema il vestito, il respiro si fa più deciso. Una smorfia di ironia torna sul volto.)
Certo che soffrirò.
Fa parte del pacchetto.
Amore, famiglia, suoceri…
Soffri, sorridi, e poi ricominci.
Come il Pilates.
Solo che qui, niente tappetino. Solo la faccia tosta e un sorriso a prova di plastica.
(Rimane ferma davanti alla porta. Lo sguardo basso, poi lentamente si solleva. Gli occhi si fanno più seri, meno taglienti. La voce si abbassa, si fa più vera.)
I rapporti umani…
Possono essere complicati.
Durissimi.
Acidi come certe battute malriuscite a tavola.
Ti spiazzano, ti feriscono, ti fanno sentire sempre in difetto, sempre fuori posto.
(Pausa, respira. Una piccola piega dolce le increspa le labbra.)
Eppure li vogliamo.
Con tutta la forza che abbiamo.
Li cerchiamo, li inseguiamo…
Anche quando sappiamo che lì dentro, dietro quella porta, ci sarà qualcuno che ci giudicherà.
Qualcuno che sorriderà a metà.
Qualcuno che dirà “stai bene così” e penserà l’esatto contrario.
(Sospira, ma non si spezza. Gli occhi si illuminano appena, sincera.)
Ma è questo che ci rende… umani.
La fatica, il bisogno, il caos delle relazioni.
L’imbarazzo, la paura…
E il coraggio di tornarci sempre.
Anche con i cerotti ai piedi, le occhiaie e l’ombrello bagnato lasciato fuori.
(Rimane ancora un istante davanti alla porta. Le voci si sentono più nitide. Qualcuno ride, si sente il tintinnio di bicchieri, un accenno di musica di sottofondo. Lei inspira profondamente. Si raddrizza. Guarda la porta, poi il proprio riflesso nello specchio accanto. Sottovoce, con ironia asciutta.)
Peggio di così non posso sembrare.
Meglio di così… non voglio sembrare. È l’unica versione di me che ho!
(Un mezzo sorriso complice, vero. Conta silenziosamente sulle dita: uno… due… tre. Apre la porta con decisione. Si spalanca il rumore della festa: voci, risate, suoni vivi. Lei entra, il passo sicuro, il sorriso largo. La porta si richiude. Luci in dissolvenza. Fine.)


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