Antigone eterna | Monologo interrotto in sei quadri

  1. Sinossi
  2. Idea di regia
  3. Antigone eterna | Monologo interrotto in sei quadri
    1. QUADRO I – Il posto più sicuro che conosco
    2. QUADRO II – Se l’aria è di tutti
    3. QUADRO III – Crollare in piedi
    4. QUADRO IV – Scaricate l’umanità altrove
    5. QUADRO V – Io sono rimasta
    6. QUADRO FINALE – Accanto

Sinossi

Un uomo scrive. Osserva, riflette, commenta. È distante, protetto dalla parola. Ma davanti a lui prende corpo una figura femminile che muta volto e condizione, pur restando la stessa. Antigone. In cinque quadri dà voce a chi resta sotto le bombe, a chi sbarca senza più nulla, a chi lavora senza diritti, a chi soccorre chi annega, a chi combatte senza gloria. Ogni volta Antigone agisce, cura, resiste. Non si proclama: si espone. L’uomo, invece, si rifugia nella scrittura. Ma l’ironia si incrina, la distanza vacilla. Quando le parole non bastano più, smette di scrivere e resta in scena. In piedi. Accanto.
Antigone eterna è la storia di un cambiamento che non si annuncia, ma si compie. Senza retorica. Con ostinazione.

Idea di regia

Lo spazio scenico è essenziale: un tavolo, una sedia, una macchina da scrivere. L’uomo è sempre in scena. Scrive, osserva, commenta, ma la sua voce è regolarmente interrotta dalla donna. Ogni volta che si manifesta, lei si spoglia con gesto rituale dell’abito precedente, lo appende con cura, e indossa quello nuovo. I cambi avvengono in scena, come attraversamenti visibili della storia. Sotto ogni abito, la donna indossa una maglia grigio scuro con una spirale dorata: simbolo della continuità che muta. La spirale, ispirata ai motivi micenei, ricorda l’origine greca del mito ma diventa emblema del cambiamento necessario e non spettacolare.

La donna non parla mai con l’uomo. Si rivolge al pubblico, con voce piena, diretta. Ogni quadro ha un tono visivo e sonoro distinto: rumori lontani, luci fredde o calde, ma nessuna musica. L’uomo, progressivamente, si disorienta. Nell’ultimo quadro, fruga tra gli abiti appesi, trova una maglia come quella della donna e la indossa con rispetto. Getta via la camicia, smette di scrivere. Resta. In piedi. Accanto.
Il gesto è minimo, ma irreversibile. Così il teatro restituisce la sola rivoluzione possibile: cambiare per condividere la responsabilità.

Antigone eterna | Monologo interrotto in sei quadri

QUADRO I – Il posto più sicuro che conosco

In scena, un vecchio tavolo quadrato, di legno grezzo, con accanto una sedia da cucina consunta. Sul piano, una macchina da scrivere meccanica e una lampada da ufficio in metallo, dal collo piegato. Sul fondale, leggermente spostato di lato, un attaccapanni con alcuni abiti appesi: sembrano consumati, segnati dal tempo.
Una luce calda isola il tavolo. L’uomo — circa cinquant’anni, camicia bianca, occhiali — è seduto. Scrive lentamente, immerso in un disordine fatto di fogli sparsi, fotografie scolorite, tazze vuote.
A un certo punto si interrompe. Alza lo sguardo. Guarda il pubblico.

UOMO
Dicono che la guerra sia tornata. Come se non ne fosse mai andata davvero. Ogni conflitto ha un odore. Questo, dicono, sa di plastica bruciata e polvere da cemento. Io lo annuso da qui. Da lontano. Mi entra nelle narici con le notizie, con le immagini sgranate. E scrivo. Per capirci qualcosa. Per trovare un centro, un filo.

Il ticchettio della macchina da scrivere riprende. Poi, di colpo, si arresta. Una luce fredda si accende altrove. Dal buio emerge una donna. Indossa un lungo thobe scuro, impolverato. I piedi nudi, i capelli coperti da un telo semplice, trattenuto con un gesto preciso. Cammina piano, lo sguardo fisso davanti a sé. In mano porta una sportina di plastica lisa, stinta: è tutto ciò che le è rimasto. Arriva al centro della scena. Si ferma. E guarda il pubblico. Solo il pubblico.

DONNA
Sottovoce
Credevo fosse il tetto che tremava. Poi il cielo è caduto dentro la stanza. Un rumore. Nessun grido. Solo quel rumore. Le pareti si sono accartocciate. Come carta. E il tempo si è fermato. In un sibilo. In un bianco.

Verso il pubblico, voce più salda.

Vogliono che me ne vada. Ma questa è la mia casa. Ci ho piantato il basilico. Ci ho sepolto mio padre, che non aveva mai alzato la voce. Qui sono nati i miei figli, e anche quelli che ho perso. Ogni mattone conosce il mio passo. Ogni crepa sa il mio nome.

Mi hanno detto: “Ti porteremo in un posto sicuro.”
Ma io sono già nel posto più sicuro che conosco. Quello che ho difeso con le mani nude. Con le storie raccontate al buio ai bambini, quando fuori scoppiava il tuono degli uomini.

Mi hanno detto: “Se resti, diventi complice del nemico.”
Allora io sarò nemica di tutti. Nemica dei muri che crollano, dei razzi che cadono, dei calcoli. Nemica dei silenzi che coprono il pianto. Nemica di chi mi chiude la porta quando fuori ci sono i feriti. Nemica di chi misura la morte con i droni.

Resterò qui. Curerò chiunque arrivi. Sarò il tetto per gli orfani. La pietra per i morti. Il bicchiere d’acqua per i morenti. Sarò l’ombra di un albero che non c’è più.

Vogliono la guerra. Io voglio la pace. E la pace si fa restando. Restando quando tutti fuggono. Restando anche se costa. Restando anche se nessuno lo scriverà.

Prende dalla sportina una garza insanguinata, la piega con cura. La appoggia sul tavolino. Lui la guarda. Lei non lo guarda mai. L’uomo resta in silenzio per qualche secondo. Poi riprende a scrivere, ma più piano. Ogni colpo sui tasti sembra più pesante.

UOMO
Scrivo. Scavo tra i verbi, tra gli aggettivi che mi sembrano più giusti. Scrivo per dare un nome alle cose. Ma a volte i nomi non bastano. Polvere, detriti, civili. Perdite collaterali. Chi decide le parole decide anche da che parte stare.

Guardo i volti nei reportage, quelli sfocati, coperti di sangue e pixel. E mi chiedo se siano veri. Non se siano reali… se siano veri. Perché io, con le mani pulite, che diritto ho di nominarli?

Ho sempre creduto nella forza della parola. Che scrivere fosse un modo di esserci. Ma lei entra. Non parla. E già ha detto più di me.

E allora scrivo. Per capirci qualcosa. Per trovare un centro, un filo. O forse solo per non sentirmi inutile.

QUADRO II – Se l’aria è di tutti

Mentre l’uomo riprende a scrivere, la donna si toglie lentamente il thobe impolverato. Sotto indossa shorts e top grigi, casti, aderenti al corpo. Sul top campeggia una spirale dorata, simbolo miceneo di trasformazione continua e ritorno, richiama Antigone perché incarna un cambiamento che non rompe, ma ritorna rinnovato, più profondo: come lei, si trasforma restando fedele a sé stessa, attraversando i tempi senza smettere mai di resistere. Appende con meticolosità il thobe a un attaccapanni. Poi prende un pagne logoro con le macchie di sale e lo indossa, in testa la dupatta. Non guarda mai l’uomo. Si sistema i capelli. Aspetta, in mano una bottiglia di plastica vuota, ammaccata.

UOMO
C’è una retorica elegante, educata, che parla di partenze come scelte. “Si mettono in viaggio”, dicono. Come se avessero un biglietto in mano. Un hotel all’arrivo. Un ritorno. Dicono…

Ma chi lascia la propria terra per mare… non parte. Viene strappato. Come un’unghia. Come un dente del giudizio, quelli con le radici profonde. Senza anestesia.

Io, quando ne scrivo, uso parole come speranza, tragedia, diritto. Termini che suonano bene a una conferenza. Che stanno comodi dentro un editoriale. Ma poi li rileggo, e mi e non riesco nemmeno a sentire il rumore delle onde. Quelle che spingono, che affogano, che inghiottono i verbi inutili.

La donna prende la parola.

DONNA
Sono sbarcata con le prime luci del mattino. Mi bruciava la bocca, la pelle, le mani, gli occhi. Il sole brucia! L’acqua salata brucia! Brucia il gasolio che esce dai serbatoi di quei vecchi barconi! Avevo dato tutta la mia acqua ai bambini, ma non era bastata. Con le loro ultime forze si aggrappavano alla mia schiena. Uno piangeva. L’altro tremava.

Li ho sentiti che gridavano: “Torna da dove sei venuta!”
Ma io non ho più niente da cui tornare. Né casa, né terra, né pane. Solo due figli e un nome che nessuno pronuncia.

Mi hanno urlato contro, con le vene del collo gonfie: “Qui non c’è posto!”
E allora io resterò! Perché se l’aria è di tutti, allora anche lo spazio che l’aria riempie deve esserlo, e il mio respiro vale quanto il vostro. Perché la fame non è una colpa, la fuga non è una minaccia.

Resterò. Perché non voglio più scappare. Resterò. Perché devo ben far crescere i miei figli sotto un tetto, anche se di cartone. Resterò. Perché non mi avete lasciato altra scelta.

Resta in piedi in disparte. Tiene le mani in grembo. Non guarda l’uomo. La luce su di lei resta accesa. L’uomo guarda verso di lei, poi riprende a scrivere.

UOMO
Ho letto che erano in ventisette. “Tutti salvi” – diceva il comunicato. Ventisette numeri, ventisette statistiche, ventisette passaggi burocratici.

Ho visto le fotografie, i servizi sui telegiornali. Mentre tutti si agitavano, correvano, si davano da fare, c’era questa donna, ferma. In piedi. Con i piedi saldi nella sabbia. Nessun abbraccio, nessuna coperta termica. Solo il mare dietro. Lo sguardo piantato oltre l’orizzonte, come se avesse lasciato andare qualcosa apposta, per non doverlo più spiegare.

Ho provato a scriverci su. Qualcosa sulla dignità, sull’accoglienza, sul diritto alla speranza. Ma le parole sembravano carta stagnola, riflettevano la mia faccia e nient’altro.

Intorno, ministri che parlavano di numeri. Opinionisti che discettavano di flussi. Io stesso ho firmato appelli. Ma poi sono tornato alla mia scrivania, e tutto è restato uguale.

Lei no. Lei ha solo due figli e un vestito macchiato di vomito, sudore e sale. Ma ogni sua parola pesa più di tutte quelle che sento.

QUADRO III – Crollare in piedi

Mentre l’uomo riprende a scrivere, la donna si avvicina alla scrivania per appoggiare la bottiglia vuota che regge in mano. In silenzio, si sfila il pagne, lo piega con attenzione e rispetto, e lo appende accanto alla thobe. Rimane in top con la spirale dorata e shorts grigi scuri, casti, neutri. Poi prende una casacca da lavoro sintetica e lisa, con un logo sbiadito sul petto, e un badge consunto. Li indossa. Prende un secchio per le pulizie, uno spazzolone, li sposta.

UOMO
A pranzo ho ordinato sushi. Sedici minuti, consegna puntuale. Appena ho aperto la porta, ho visto il ragazzo: fradicio, tremava. Bicicletta, giacca a vento, occhi bassi. Ho detto: “Grazie, buon lavoro.” Lui ha annuito. Già girato, già via. Per due spiccioli e una valutazione a stelline.

C’è chi dice che il lavoro nobilita. Che dà dignità. Ma certe dignità non fanno rumore. Non parlano italiano. Non si permettono di alzare lo sguardo.

Abbiamo trasformato la fatica in prestazione. La sopravvivenza in servizio clienti. E il tempo? Il tempo è una voce di costo.

La donna si ferma. Si volta verso il pubblico. E parla.

DONNA
Mi hanno detto che ero fortunata. Perché avevo un lavoro. Perché prendevo qualcosa, anche poco. Mi hanno detto: “Qui si fa così.” Così… cosa? Così si piega la schiena, si salta il turno in bagno, si firma quello che non si legge.

UOMO
Ma insomma… un lavoro, no? Che c’è di male? Sacrifici ne facciamo tutti.

Lei si ferma. Lo guarda per la prima volta: con disprezzo. Poi si volta verso il pubblico, con un gesto lo zittisce, come allontanando un insetto fastidioso. Riprende, rivolta al pubblico.

DONNA
Parlate sempre da fuori. Ma è dentro che si soffoca. Scommetto che non vi hanno detto: “Zitta, che altrimenti resti fuori”, vero? Fuori? Fuori c’ero già, prima. Ero fuori quando facevo i turni doppi per pagare l’affitto, quando nascondevo la febbre per non perdere ore, quando saltavo i pasti per fare mangiare i bambini. Fuori è una parola che conosco bene.

Ma io resto. Resto perché le altre mi guardano. Quelle nuove. Quelle che non capiscono la lingua. Quelle che firmano e non sanno cosa. Quelle che sorridono per paura. Io traduco. Io spiego. Io tengo. A volte mi odiano. A volte mi amano. Ma mi vedono.

Mi hanno proposto un contratto peggiore. Ho detto no. Mi hanno tolto le ore. Ho detto lo stesso no. Mi hanno lasciato sola. E io… ho fatto gruppo.

Resto. Perché non voglio essere l’ultima. Perché qualcuna, domani, avrà bisogno di sapere che si può dire basta. Resto. Perché anche il silenzio, se lo si guarda negli occhi, può cambiare forma.

Si sfila il badge, lo tiene in mano, lo guarda. Poi lo poggia sulla scrivania. L’uomo lo raccoglie, lentamente. Lo osserva. Poi riprende a scrivere.

UOMO
Ho letto che in una fabbrica bruciata hanno trovato una donna. Era rimasta là, seduta. Immobile. Il fuoco aveva inghiottito ogni cosa. Tranne una cosa: il badge. Lo stringeva in mano. Come fosse un tesoro inestimabile, un documento d’identità. Bruciato ai bordi, ma il nome si leggeva.

Un nome solo. Nessun cognome. Nessuna storia. Niente a cui aggrapparsi. Eppure bastava quello. Bastava per raccontare tutto. O forse solo per mettere a disagio chi, come me, pensa ancora che scrivere di queste cose serva a qualcosa.

QUADRO IV – Scaricate l’umanità altrove

Mentre l’uomo scrive, la donna si alza. Si sfila la casacca da lavoro e la piega con lentezza, come un abito sacro. La appende accanto agli altri. Resta in top e shorts grigi scuri, lasciando che la spirale dorata sia ben visibile. Poi prende un giubbotto catarifrangente, con impresse le sigle di un’organizzazione umanitaria. Lo indossa. Con gesto secco, si infila guanti in lattice. Non guarda mai l’uomo.

UOMO
L’ho vista una volta in TV. Capelli conciati alla meno peggio, giubbotto scolorito, niente trucco. Parlava come una che ha dimenticato la grammatica per strada. Sembrava una di quelle che si legano agli alberi, gridano nei megafoni, dormono nei sacchi a pelo coi cani.

Ho pensato: “Eccola, un’altra che vuole redimere il mondo coi cerotti.” Poi l’inquadratura si è allargata. E dietro di lei c’era una fila di bare bianche. Piccole. Allora ha parlato piano. Ha detto: “Io non mi abituo.” E mi ha fatto male. Molto male.

Ho cercato di scrivere qualcosa. Una lettera aperta, una riflessione sull’umanità, sull’equilibrio tra diritti e doveri. Ma a ogni frase mi chiedevo: e tu, cosa hai fatto?

La donna si avvicina a un punto immaginario sul pavimento, si china, come se esaminasse un corpo invisibile. Poi si rialza. E parla.

DONNA
Avete presente quella sensazione che vi prende quando sentite il telegiornale dire: “Nessuna emergenza. Tutto sotto controllo”? Ecco, io ero lì. Bagnata fradicia. Con il sangue addosso, il vomito, il piscio, la merda. Con l’odore dei cadaveri in gola. E sapete una cosa? Era tutto tranne che sotto controllo.

Mi hanno detto: “Stai zitta. Fai il tuo dovere.”

Alzando la voce.

Il mio dovere è gridare, cazzo!

Tornando ad un tono teso.

Mi hanno detto: “Rispetta le autorità.”
Io rispetto i morti. Quelli sì.

Punta verso qualcuno, nel pubblico, indicandolo col dito.

Lo so. Mi stai guardando e pensi: “Ecco la solita fanatica. Neanche si pettina. Una senza trucco che vuole salvare il mondo.” Sì, hai ragione. Ho i capelli annodati e le occhiaie! E allora? Non vengo bene su Instagram?
Ma sai una cosa? Quando raccogli dal mare un neonato annerito, gonfio come un pallone, e tu non puoi fare niente… beh, da lì in poi del mascara non te ne frega letteralmente un cazzo!

Lunga pausa. Guarda il pubblico ruotando lentamente il volto sulla platea, con aria di sfida.

Mi hanno detto: “Non è compito tuo.” E io ho risposto: “E di chi, sennò? Di chi fa i decreti e poi se ne vanta sui social?”

Tira fuori una busta. La apre. Ne estrae un foglio con un timbro immaginario. Lo alza.

Questo è l’ordine. Quello che mi diceva di scaricare a mille chilometri. Questi sono i funzionari di uno Stato che mi ha multata. Indagata. Screditata!

Lo strappa. Lentamente. Pezzo dopo pezzo. Li lascia cadere.

Carta straccia. Come le loro promesse.

Ho visto madri squarciate, padri che stringevano sacchetti con dentro tutta la loro vita. E mentre contavo i sacchi neri, sentivo le dichiarazioni nei telegiornali: “Sono criminali.” “Sono taxi del mare.” “Sono propaganda.”

Gridando.

Sì. Sono propaganda! Propaganda di umanità! Propaganda di chi non ha più voce! E allora tocca a noi. Urlare anche per loro.

Con decisione.

Mi hanno detto: “Non cambierà nulla.” E io ho risposto: “Nemmeno io.” Nemmeno io cambierò. Finché ci sarà un solo corpo da salvare. Una sola mano da afferrare. Resterò. Perché arrendersi, per me, sarebbe morire.

Si toglie i guanti e li lascia cadere accanto alla macchina da scrivere. L’uomo li raccoglie lentamente, li osserva, poi scrive una parola. Non lo guarda.

UOMO
Cerca di riprendere a scrivere. Una pausa. Batte un tasto, poi si blocca. Guarda il foglio.

Non ho abbastanza parole. O ne ho troppe. E servono a poco. Inutili.

Pausa. Sbuffa.

Io ordinavo sushi. Lei contava sacchi neri. Io firmavo appelli. Lei strappava ordini. Io spiegavo. Lei… salvava.

Cerca di reagire. Ma è spiazzato.

Io ho idee. Lei ha mani. Io ho convinzioni. Lei ha cicatrici. E la cosa che più mi disarma è che non vuole nemmeno avere ragione.

Si alza. Fa due passi. Guarda l’attaccapanni, poi lei. Vorrebbe dire altro. Non lo fa. Buio lento. Nessuna conclusione. Solo un silenzio che pesa.

QUADRO V – Io sono rimasta

Mentre l’uomo scrive, la donna, lentamente si sfila il giubbotto della volontaria. Lo piega con cura, lo appende all’attaccapanni, accanto agli altri. Resta in top e shorts grigi, mettendo discretamente in vista la spirale dorata. Poi prende una divisa militare sporca di fango. Non ha gradi, né simboli. Solo tessuto grezzo. La indossa con lentezza. Infila scarponi. Si lega i capelli, indossa l’elmetto. Tiene un fucile appeso alla spalla destra.

UOMO
Ho sempre pensato che la guerra fosse ingiusta. Punto. Senza eccezioni, senza deviazioni. Ogni esercito è un fallimento. Ogni arma, una sconfitta della ragione.

Poi ho visto lei. Divisa mimetica, spalle strette, fucile a tracolla. Non marciava. Camminava piano. Ogni passo era un peso. Ogni silenzio, un lutto.

E ho pensato: com’è possibile che una come lei, una che avrebbe potuto cantare, ballare e scrivere poesie, scelga invece di sparare?

Mi ha guardato. No, non me. Ha guardato qualcuno dietro di me. Forse un ricordo. Forse una casa bruciata. E ha detto: “Non combatto per uccidere. Combatto perché qualcuno sopravviva.”

La donna cammina fino al centro del palco. Non guarda mai l’uomo, ma tiene gli occhi fissi sul pubblico. E parla.

DONNA
Avevo diciannove anni. Studiavo. Avevo un fidanzato. La domenica prendevamo una vecchia corriera azzurra per andare a vedere il mare. Poi un giorno il mare non c’era più. C’erano colonne di fumo, sirene, lacrime secche.

Pausa. La voce si spezza.

Sono entrati nel mio villaggio. Erano ubriachi, ridevano. Lanciavano per aria i neonati per colpirli al volo. Hanno ordinato alle nonnine e ai nonnini di servirgli alcolici. Li hanno impauriti, umiliati, per poi ucciderli. Hanno preso le mie amiche, le hanno usate. Poi le hanno ammazzate… con calma. Come si schiacciano le mosche. Una… due… tre… Io ero sotto il letto. Un vecchio letto è quello che mi ha salvato.

Fa un gesto come a scacciare le immagini.

Non so chi mi ha tirata fuori. Un soldato sconvolto. O una vecchia tremante. So solo che da quel giorno ho smesso di tremare. E ho iniziato a mirare. Non ho più fratelli. Né madre, né padre. Non ho più il mio nome, né la mia lingua. Solo coordinate, comandi secchi, occhi che non devono sbattere le palpebre.

Una risata amara, quasi isterica. Imbraccia il fucile, lo carica, si mette in posizione, di profilo, le gambe divaricate a cercare stabilità, calma, metodica, prima cerca e poi inquadra un nemico immaginario, in mezzo al pubblico, parla lentamente, allunga le parole, mentre regola il mirino.

Sono diventata un’ombra. Sono morte, che colpisce senza essere vista.

E spara! Abbassa lentamente l’arma. La osserva mentre parla.

Mi chiamano eroina. Ma io non mi sento una eroina. Mi sento sporca… lurida, lercia, disgustosa… E, in più, sono così stanca…

Si ferma. Poi guarda il pubblico. La voce si spezza davvero.

Se potessi tornare indietro, lo farei cento volte. Mille volte! Per non finire qui. Per non diventare quello che sono diventata.

Un singhiozzo. Poi si riprende.

Ma anche se non ho più nessuno, ci sono ancora gli altri. I figli degli altri. Le madri degli altri. Le ragazze degli altri. E se io riesco a tenerli in vita, almeno per un giorno in più, allora resto. Ancora.

Silenzio lungo. Poi un urlo espresso. Potente.

Io non ce la faccio più! Non posso più vedere occhi vuoti, braccia spezzate, corpi smembrati! La nuvoletta rossa di sangue che appare quando centri il bersaglio! La smorfia di sorpresa, più che di dolore, di chi viene colpito! Non voglio più essere costretta a premere quel cazzo di grilletto!

Butta il fucile a terra e scappa. Letteralmente. Corre fuori dalla luce. La luce su di lei si spegne di colpo. Un suono cupo immediato, come una porta che sbatte, fa risaltare il silenzio duro, ruvido che segue. L’uomo la guarda. Non scrive.

UOMO
Non parla. È seduto, fa per scrivere, ma le mani non ubbidiscono. Le posa sulle tempie. Poi sulla macchina da scrivere. Si asciuga gli occhi. Poi le alza in aria. Le lascia ricadere, come vuote. Un gesto secco, senza teatralità. Solo uno scarto: come chi ha finito le parole, e ha perso le certezze. Si volta verso il lato da dove lei è uscita, lo guarda a lungo. Poi siede, in silenzio. Non scrive più. Finalmente si alza e si avvicina al fucile rimasto a terra. Riprende a parlare guardando fisso il pubblico.

Mi chiedo: se non fosse caduta la sua città, se non avessero massacrato le sue amiche, avrebbe mai impugnato un’arma?

Si ferma, raccoglie il fucile e lo osserva, come se fosse un insetto affascinante e assieme orrendo.

E mi rispondo: no.

E mi chiedo ancora: allora io… io cosa avrei fatto? Avrei combattuto? Avrei finto? Avrei scritto…

Lo so. Io mi sarei arreso… Forse al primo rumore. Forse ancora prima. Magari cercando una scusa. Un aereo. Un convegno. Una fuga dignitosa.

O, forse, sarei diventato complice. Avrei tenuto loro l’elmetto mentre violentavano una ragazza… Li avrei seguiti, dopo, a ubriacarmi.

Con la stessa sacralità usata dalla donna per appendere gli abiti nei cambi, appende il fucile all’appendiabiti.

E per la prima volta non so che scrivere. O, peggio, ho paura di scrivere quello che so.

QUADRO FINALE – Accanto

L’uomo è solo. Davanti a lui, disposti con ordine: la garza, la sportina il badge, i guanti da lavoro. Il fucile è appeso all’appendiabiti, assieme agli abiti appesi, segna un cammino silenzioso. Si siede, li osserva, quasi contemplandoli. Poi guarda verso il pubblico. Il tono è rallentato, disarmato.

UOMO
Non so più da dove cominciare. Forse da qui. Da questo tavolo. Da questi poveri oggetti che  raccontano la guerra meglio di quanto avrei mai potuto fare con le mie parole.

Credevo di capirla, la guerra. Credevo di poterla nominare. Parlarne bene. Dare forma al dolore, e restare intero. Ma ogni parola si è sbriciolata davanti a lei.

Si alza. Cammina piano. Poi si ferma.

E non era nemmeno sempre la stessa. Ogni volta cambiava volto, voce, storia. Ogni volta entrava, mi toglieva spazio, mi rubava il centro della scena. E io restavo qui, a misurare la lunghezza del mio discorso come altri misurano la lunghezza di qualcos’altro, con lo stesso senso di urgenza, di inutilità.

Sorride amaro. Si volta verso i costumi appesi.

Ho scritto per non sporcare le mani. Ho scritto per non scegliere. Ho scritto perché sembrava abbastanza. Non lo è.

Pausa. Il tono si fa più basso.

E adesso ho paura. Non di lei. Non di morire. Ho paura che se fossi stato lì, in uno qualunque dei suoi racconti, non avrei fatto nulla. Nulla. Avrei aspettato che passasse. Avrei detto: “non è compito mio”. Avrei scritto. Per convenienza, per viltà, sarei stato dalla parte degli altri…

Guarda per la prima volta verso il pubblico.

Lei non è una mia invenzione. Non è una mia creatura. È sempre esistita. Io l’ho solo disturbata. E lei, paziente, ha continuato a curare, raccogliere, portare, soccorrere, proteggere.

Io l’ho chiamata Antigone per darmi un tono da intellettuale. Un alibi culturale. Ma lei non ha bisogno di nome. Lei resta. Sempre. Anche ora. Antigone eterna…

Io, invece… ho sempre scritto per spiegare il mondo. Da fuori. Come se bastasse. Ma ora non mi basta più. Ora so che capire non è niente, se non cambia il modo in cui si vive.

Si interrompe. Si slaccia lentamente la camicia, cerca di sfilarla ma non ci riesce. Poi alla fine la toglie, con rabbia la appallottola e la getta sul pavimento, quasi con disprezzo. La guarda con ira, come se avesse una volontà propria. Fa due passi verso l’attaccapanni.

Mormorando.

Ma dov’è… Lo avevo visto… Era qui, cazzo…

Silenzio.

Forse sotto?

Fruga tra gli abiti appesi. Si sente il rumore delle grucce. Poi si blocca. Tira fuori una t-shirt grigia, con il simbolo della spirale. La guarda. La apre lentamente. La accarezza con le dita.

Eccola. Quella che non ha mai avuto paura di sporcarsi.

Si toglie la maglietta bianca, resta a torso nudo un istante, poi indossa lentamente quella grigia. Stira le pieghe accarezzandola con le mani. Nessuna parola. Solo il gesto, rispettoso, lento. Quando finisce, si volta verso il pubblico. Luci basse. Solo il simbolo dorato della spirale che emerge.

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